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La passione per il basket e la “Magia”

Non succede spesso che si possa parlare delle proprie passioni, ma quando lo si fa non ci si può tirare indietro dal descriverne la nascita.
E’ il 7 novembre 1991, ho 10 anni e sto per capire, come buona parte del mondo, che HIV e AIDS non badano al conto in banca, alla popolarità, a quello che regali all’umanità.
In appena 17 giorni, due figure che hanno plasmato i propri mondi a loro immagine e somiglianza testimoniano tutto questo.
E’ il 7 novembre 1991 ed un telegiornale sportivo da una notizia diversa dalle altre: l’NBA è scossa da un terremoto. Il suo giocatore più rappresentativo, quello che negli ultimi 11 anni è stato il più vincente, il più forte, il più impattante, si ritira dopo aver scoperto di avere l’HIV. Earvin Johnson, più conosciuto come “Magic”, dice basta.
Avere 10 anni, abitare in Italia ed essere tifoso di calcio fa si che quel nome sia, per me, poco più di “Si, l’ho sentito nominare, gioca nei Lakers”. Ma essere nati e cresciuti in una famiglia calciofila se esiste il concetto, ha dei lati positivi: la pay-per-view, che all’epoca si chiamava Telepiù.
Ringraziando i nonni che pagavano regolarmente l’abbonamento scopro che, in seguito alla notizia, Telepiù organizza speciali su Magic, sulle sue partite, sulle sue giocate, su come la lega più spettacolare del mondo si sia abbeverata a quella fonte di gioco.
Per me lo sport non è più stato lo stesso.
Conoscete la storia di Paolo di Tarso e della sua illuminazione sulla via di Damasco? Ecco, a parte la caduta da cavallo, e che la mia Damasco era invece Los Angeles, le cose sono andate più o meno nello stesso modo. Conversione istantanea.
Guardavo rapito la sintesi delle 12 stagioni di Magic in NBA, lo guardavo giocare e vincere anelli, godendomi le immagini della nascita e dell’epopea dello “showtime”, forse la più grande sublimazione di sport e spettacolo che si sia vista al mondo. Quei nomi, quel quintetto che mi esce spontaneo come una litania, come una poesia imparata a memoria alle elementari: Johnson, Scott, Cooper, Worthy, Abdul-Jabbar. Ecco, in quei giorni ho capito di aver trovato una passione diversa da tutto il resto.
Ci sono tante cose da imparare per comprendere il basket, e ancora di più per comprendere che mondo è l’NBA: le regole tecniche, le tattiche, le difese e gli attacchi, i passi e l’interferenza a canestro, la lottery, il draft, il salary cap, le trade. Un altro mondo.
Senza sapere nulla di tutto questo, senza avere la minima conoscenza di tutte queste regole, quel mondo mi aveva rapito, tenendomi tuttora in un luogo segreto senza chiedere riscatto.
Partono le immagini, la prima finale di Magic: stagione 1979-80, Los Angeles Lakers contro Philadelphia 76ers, la squadra di Doctor J, al secolo Julius Erving. In NBA, la stagione regolare ed i playoff sono due mondi distinti: il primo serve solo per essere pronti per il secondo. I turni di playoff che contano si fanno al meglio delle 7 partite, e la finale non fa eccezione.
I Lakers vinceranno 4-2, con una gara-6  mostruosa di Magic sul campo della città dell’amore fraterno: 42 punti, 15 rimbalzi, 7 assist, giocando alternativamente in tutte le posizioni del campo.
Quello che gli almanacchi non dicono e che io scoprirò dopo anni, è come si arrivò a quella partita.
Serie sul 3-2 per i Lakers che però perdono per infortunio Kareem Abdul-Jabbar, il lungo più dominante della lega. A Los Angeles ci si interroga: come faremo a vincere il titolo senza il nostro miglior giocatore, andando a giocare la prossima partita in trasferta? Si sale sull’aereo, facce preoccupate e poca voglia di scherzare. Fino a che il rookie con il numero 32 (già, Magic era al primo anno) si siede al posto di Kareem e dichiara: “Don’t fear, the 32 is here”. Il resto è storia.
Continuano le immagini: le finali vinte (1982, 1985, 1987, 1988) e quelle perse (1983, 1984, 1989, 1991), gli All-star game, la folla in delirio mentre Earvin fa qualcosa di incredibile. Lo speciale sulla sua infanzia, sulla sua adolescenza, sulla sua vita. I sorrisi, dispensati a compagni, avversari, giornalisti, bambini. Sorride anche mentre gioca, Magic, a dimostrazione che si diverte come nessuno la in mezzo. A distanza di anni mi capita ancora di guardare quei video con gli stessi occhi tra l’incredulo e il rapito, lottando contro la pelle d’oca quando lo vedi correre in contropiede o su quel palco a dichiarare: “It’s over”. Torniamo di nuovo li.
E’ il 7 novembre 1991 e in quegli anni essere sieropositivi significa essere colpiti da AIDS. Non c’è scampo. Il pubblico lo sa, ma non vuole staccarsi da Magic. Lo vuole vedere sul campo. Restate qui con il pensiero, mentre mi perdo un momento.
Conoscete l’All Star game? Il concetto è facile: vengono scelti dal pubblico 5 giocatori tra quelli che giocano ad Ovest, 5 tra quelli che giocano ad Est (gli Stati Uniti sono grandi, quindi si divide il campionato in due conference geografiche, allo scopo di limitare i lunghi viaggi e i fusi orari da smaltire). Nella stagione 1991-1992 i partecipanti vengono scelti attraverso voti su schede date al pubblico ad ogni partita. Magic, che in quella stagione è già ritirato, è il quarto in graduatoria. Il QUARTO.
Bene torniamo a riprendere il nostro pensiero. L’NBA dice che Magic va alla gara delle stelle. E a volte le coincidenze sono meravigliose, perché quell’anno la partita si tiene ad Orlando, città ribattezzata “The Magic Kingdom” come l’omonima fetta di Disney World che si trova li. Il pubblico gli riserva un’accoglienza come si fa nelle famiglie, lo vuole vedere in campo, non vuole che quella partita finisca. Lui risponde, da spettacolo, sfida Isiah Thomas e Michael Jordan, vince l’incontro, vince il titolo di MVP. Sugli spalti i tifosi piangono, e a casa un bambino di quasi 11 anni si trattiene nel sentire il commento (ovviamente in differita il giorno successivo) del grande Dan Peterson che sull’ultimo tiro da 3, a 10 secondi dalla sirena finale, urla: “Magic, ci prova da 3… Ooooooo, non esiste questo!”. Si fermano tutti, non c’è altro da aggiungere. 22 anni dopo, quel bambino viene ancora travolto dalle emozioni guardando quel video.
Succederà altro: le Olimpiadi del 1992, il Dream Team, i ritorni e i nuovi ritiri, le iniziative e la beneficenza. La malattia si ferma, lui continua a sorridere e ad essere per tutti Magic. Ha vinto anche questa battaglia.
Negli anni è rimasto un’icona dello sport, è stato scelto nella Basketball Hall of Fame e come miglior Laker di sempre.
Per me, però, lui sarà sempre l’untore che mi ha passato questa malattia che è la passione per il basket.
Per me lui sarà sempre il migliore, altro che Michael Jordan, Bill Russell, Larry Bird, Kobe Bryant o Lebron James. Sapete perché? Perché “Non esisterà mai più una guardia di 2 metri e 6 cm che ti sorride mentre ti sta umiliando” (J. Worthy, compagno ai Lakers).

Per i più attenti: ricordate il secondo capoverso? 17 giorni dopo a quel fatidico 7 novembre, si spegneva a 45 anni Farrokh Bulsara, l’altro motivo per cui pagherei per rivivere gli anni ‘80 da adulto.

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