Storie

Le storie in un quintetto

Programmare la stagione editoriale in attesa che quella sportiva prenda il via.
Appunti.
Foglio bianco.
Paura.

Ho amato il Montesilvano dello scudetto di Firenze, che lottava contro gli avversari, contro sé stesso, che non capivo, che non si capiva, pieno di lacrime e di schegge. Quello che festeggiava nella notte sul tetto di un pulmino fuori al suo palazzetto, quello così improbabile da essere l’unico possibile.
Tutti gli altri che si sono succeduti mi sono stati indifferenti. Non avevano niente da raccontarmi. Come la gente che piangeva quest’anno dopo aver vinto 10 a zero e sembrava una storia ma poi mi sono accorto che quelle lacrime non odoravano di rabbia ma di paura.

Ho amato l’Olimpus del triplete, che lotta contro sé stesso anche in allenamento, remava contro tutti e tutto, si batteva contro la Ternana in una delle poche volte quand’era allenata davvero e finiva con qualcuno con le braccia tese sotto la tribuna. Storie di vite tenute insieme dalla voglia di vincere, da quel ti odio ma amo di più vincere. Le famiglie disfunzionali sono quelle che vincono. Non m’entusiasma nessuna squadra del maschile, fatta eccezione forse per quelle dove nei time-out volano anche insulti, dove chi deve calciare una punizione prima agita un vaffa in direzione della panchina e poi quando segna corre verso la panchina con l’indice accusatore. Porte rotte, pugni, veti incrociati. Storie da un barrio, storie di case troppo piccole e troppo affollate, storie di chi sopravvive e chi vive e alla fine però nessuno le racconta mai davvero.

Storytelling Sportivo

Ho raccolto frammenti di storie: Susanna, Filipa, Ersilia, Cely e Leti.
Ho visto passare giocatori e donne, non sempre con la stessa maglia indosso. Nel futbol, come lo chiamava Soriano capita d’innamorarsi, senza capre perché, per un dettaglio.
Prendo la mia squadra, quella fatta di storie. Le prime che mi vengono alla mente, senza pensarci troppo.

In porta posiziono una sedia, anzi gioco con il portiere di movimento, colpa mia forse che non ho trovato storie da raccontare e quelle che potevano essere le ho solo sfiorate.
Pamela, perché chi non ha capito quanta intelligenza sportiva è necessaria per vincere con i piedi montati nella direzione sbagliata per uno strano scherzo, è destinato a non vincere mai. Se devo andare in “guerra” lo faccio con quelli che al termine della partita dopo una sconfitta mi diranno con un filo di voce “non ne ho più”.
Antonia è dieci volte il giocatore che è riuscita ad essere ma cento volte la donna che pensa di essere diventata. Avrei mandato solo lei dal dischetto anche dieci volte di fila, con il pallone sotto braccio.
Lo sguardo in avanti e poi il gol, come se nulla fosse.
Storie di rigori e di rigore.
Susanna è il capitano di qualsiasi squadra, quella che scegli per prima come si fa al campetto tra gli amici.
L’esempio conta più delle parole, i segni di una vita spesa inseguendo un sogno sul viso e sulle gambe.

Storytelling Sportivo

Gli stessi segni sulle ginocchia di Ersilia, quelli sono il prezzo da pagare per vincere per arrivare al vertice e provare a restarci aggrappati anche ai suoi silenzi, alle sue fragilità e all’intricato scorrere dei suoi pensieri che spesso non hanno suoni ma solo colori.
Araceli. Chi aveva qualche dubbio non ha mai letto quello che scrivo. Per i capelli tagliati male e per le taglie che mancano e alle quali hai rinunciato solo per giocare meglio. Per una vita fatta di scelte e perché solo chi ha indossato le tue scarpe può sapere la strada che hai percorso. Qualcuno deve far giocare meglio questa squadra senza che sia la migliore, a qualcuno dobbiamo appoggiarci quando in campo facciamo fatica e qualcuno deve farci vedere come si alza una coppa.
Leticia perché non doveva essere è invece eccola qui. Indosso la maglia della Roja e anche se per una sola volta, vale perché c’è gente che non l’hai nemmeno mai sfiorata. Per i viaggi fatti di pacchi che diventano valigie e per una frase: “io devo imparare a perdere ma tu devi imparare a vincere”.
Taina per la donna che è fuori da campo, perché il campo è il suo palcoscenico e serve qualcuno che non dimentichi da dove è partita e quanto è stato difficile il viaggio della vita. Per la sua generosità che non è solo quella che spende sul campo e quella che da fuori arriva sul campo.
Filipa, perché sei il giocatore che fa cacciare gli allenatori. Perché ci si innamora di quello che dovresti essere ed è così grande che oscura quello che sei ora e non dovresti essere. Perché ho perso il conto delle colazioni, del tempo passato insieme e perché il mio gatto di considera una di famiglia.

Storytelling Sportivo

Conservo anche tanti altri appunti di storie che potrebbero essere e non sono ancora.
Divani e alberghi, notti piene di vomito, Ducati e autobus, “dovevi preoccuparti se era una donna”, storie di tiri scagliati intenzionalmente verso la panchina, oggetti che volano negli spogliatoi, viaggi e lacrime, dopo partita troppo lunghi da finire all’alba, “prendi una birra ti racconto una storia”.

Non basta il suono del pallone che rimbalza sul campo, che gonfia la rete.
Senza le vostre storie non c’è niente da raccontare.
Un gesto atletico è uguale a mille altri, la storia che lo precede e gli succede è quella a fare la differenza.

Paura.
Di restare senza storie e allora forse vado a cercarle dove non guarda nessuno.

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