Sport

Redshirt S01E10

Redshirt S01E10

Avresti dovuto pubblicarlo quel pezzo del tuo diario, avresti voluto farlo, era però un desiderio che veniva dallo stomaco e s’insinuava ad avvelenare il cuore. Le ragioni del cuore prevalgono e lo tieni nel cassetto, almeno per un po’, la stagione termina solo tra qualche settimana, quel ventinove novembre è cerchiato di rosso sul calendario. Segna, quel libera tutti e scioglie le briglie di questa storia.
Questo è ora, un pomeriggio di autunno strano, troppo caldo per essere vicino all’inverno.
Homecoming.
Genitori e Giocatori.
Insieme per la prima volta, sul campo, danno vita a una tradizione. Un pezzo alla volta, un errore e una correzione, si cerca insieme la via per portare sul campo non sola tecnica e tattica ma cuore e tradizione.
Hai invitato tanti amici, tutti speciali nel loro essere esattamente se stessi.
Il campo non è quello delle grandi occasioni, quello con gli spalti coperti, i seggiolini e il bar.
Già perché non c’è partita di nessuno sport degno d’esser giocato lontano da un bar, un ambulante che ti vende pane e porchetta, insomma non si può trascurare il binomio cibo&sport.
Non era la partita che speravi, per due quarti ti eri illuso di poter dimenticare le ultime due sconfitte sanguinose, con una prestazione degna dell’impegno che tutti mettono in quest’avventura.
Quando si spegne la luce in mezzo al campo, una frattura emotiva allarga la distanza tra la sideline e il campo.
Ancora una volta, per la terza in questa stagione così convulsa, in campo si gioca una partita che non riconosci, accade certamente qualcosa nella loro testa, s’insinuano le scuse che trovano sempre, la paura prende il sopravvento.
Lo scollarsi improvviso della squadra, l’incapacità di mantenere ed eseguire semplici assegnamenti, uccidono la squadra che guardi in campo battersi, aggrappata troppo al cuore e poco alla testa.
C’è qualcosa in quegli occhi nascosti dal casco, che non sopporti, che non vuoi imparare a tollerare.
LA CODARDIA.
Quelli che dicono “non ce la faccio”, quelli che troppo facilmente ti confessano “mi cago sotto”.
Non è la paura, il vero problema, ma l’attitudine a cedere il campo allo sconforto, a mollare la presa. Si arrendono senza aver nemmeno tentato.
Ti arrivano direttamente nella colonna vertebrale i ricordi di un letto d’ospedale, di medici che confabulano di un tumore al cervello, qualcuno azzarda: “mesi di vita”. Dai una occhiata al calendario, sono passati venticinque anni. Certo avevi paura, chi non ha paura di morire è uno stupido o un bugiardo.
Quando hai le spalle al muro, non c’è luogo, dove fuggire, puoi solo andare avanti, provarci e tentare ancora, perché il fallimento non è che una fermata per riprendere fiato. Non c’è nulla al quale tornare, se non un freddo silenzio che odora di solitudine.
La battaglia, il sudore e la soddisfazione di essere sopravvissuto. Le difficoltà, i fallimenti rendono indescrivibile la gioia del successo.
Quando dopo una sconfitta si china il capo è perché in fondo al cuore sappiamo di non aver dato il massimo, di non aver lasciato tutto sul campo.
Dovresti ricordare loro che quando orgogliosi indossano casco e spalliera e si trovano ritratti in mille foto di cui sono fieri, devo stamparsi nella mente che non sono a un corso di balli caraibici, non indossano un carinissimo tutù, sono giocatori di football americano.
Lo scontro, la collisione di corpi, sono gli elementi che rendono questo sport unico.
Dovete abbracciarli, oppure lasciate il campo.
Vorresti urlare, vorresti essere in collera con il mondo, ma un dottore tanto tempo fa t’insegnò che il silenzio ti permette di sopravvivere, nel silenzio si elaborano i conflitti.
Li guardi gettare via la partita, cedere un centimetro alla volta, un errore dopo l’altro, indietreggiare fino a quando con le spalle al muro, semplicemente si arrendono.
Quando le ombre lunghe di quest’autunno si allungano sul campo, sembrano più piccoli, più lenti, più vulnerabili.
Corrono intorno al campo, in un’ordinata e silenziosa fila. I muscoli scaricano le tossine e hanno tempo, per loro stessi.
Il silenzio.
Questo è il suono della sconfitta.
“It’s Not How Hard You Fall.  It’s How You Get Back Up”
Le parole non bastano più, su quel campo, a ogni allenamento, con ogni fibra del corpo e con ogni goccia di sudore devono dimostrare di voler vincere, che quel desiderio di primeggiare è più forte di qualsiasi paura.
Devono trovarlo dentro di loro, guardarsi nel cuore e scoprirlo.
È una strada che devono percorrere da soli, un cammino che li farà diventare uomini.
Non puoi accompagnarli, li puoi attendere alla fine del viaggio.
Non sei stanco di perdere, quando si compete, è una possibilità.
Sei stanco di essere battuto.

Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

To Top