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Se Fossi un Mister – Il Viaggio e la Meta

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L’autostrada bruciava calore dall’asfalto, con un poco di immaginazione sembrava quasi la griglia di un barbecue, la macchina bruciava km sotto i pneumatici anche essi roventi ma c’era una cosa che bruciava più di tutto, i cuori nel petto di quelli che erano saliti su quella macchina, caricando borsoni, borse mediche, mute e lasciando un piccolo spazio davanti, sul sedile del passeggero per accatastarci tutte le speranze che questo viaggio rappresentava.

Dentro l’auto il pivot, due laterali, il preparatore dei portieri ed un mister, forse io o forse voi, chi di voi non ha già fatto mille di questi viaggi?

Dietro di noi incolonnate le altre auto e gli altri protagonisti, in viaggio tutti verso qualcosa, ognuno con un suo percorso mentale, un labirinto di domande e paure che deve portarci alla stessa meta, ognuno ripercorrendo dal primo all’ultimo giorno passato insieme,  perché oggi ci siamo e domani no ed allora magari potrebbe essere un ultimo giorno insieme, un ultimo traguardo possibile da tagliare braccia al cielo, bagnati da lacrime e sudore, bruciati dal sole come sul barbecue si rosola pian piano un brandello di carne, intanto a me l’unica cose che scotta e cuoce è il cuore sotto la maglia e la testa che naufraga tra i pensieri.

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Questa è davvero una sfida da dentro o fuori, questa è quella partita che se la vinci puoi abbandonarti sfinito sulle spalle di una tua compagna, puoi raccontare finalmente di aver anche avuto paura e puoi permetterti di piangere davanti a tutti, quando si vince non c’è vergogna, si torna tutti bambini con la maglia sporca di gelato, i capelli arruffati, i capricci come i ricci però puliti, puliti dentro dalla stanchezza, la fatica e dalla vergogna che ti porta ad  arrossire e piangere, perché ormai sei grande e non dovresti essere debole.

La verità è che si è più deboli e soli quando si diventa maturi che quando si insegue il filo della tua vita,  legato con un cappio ad un palloncino che corre via spinto dal vento,  a te sembra così lontano il tempo in cui sarai adulto ed invece ti guardi dentro e sei già vecchio.

La radio suona “ La leva calcistica del ’68 ” ed un giovane  De Gregori trasforma in musica il sogno di ogni bambino che un giorno camminando verso il dischetto andrà a tirare il rigore della vita, questo è il mio, questo è il nostro calcio di rigore, dentro o fuori e poi stop, ci sarà da aspettare un altro anno intero prima di trarre le conclusioni.

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Mentre guido le mie dita si muovono nervosamente sul volante come se fosse il manico di una chitarra, cerco le note giuste, penso alla coda dietro delle altre macchine ed ecco l’intuizione, ci vorrebbe un pianoforte a coda per suonare De Gregori, calmati, respira, è solo una partita, alzi gli occhi e nello specchietto retrovisore  incroci lo sguardo di una tua giocatrice, lei sa benissimo cosa stai pensando e tu sai cosa pensa lei tanto che contemporaneamente vi si arriccia il labbro, vai a capire se è una smorfia o un sorriso oppure un labbruccio per dirsi dobbiamo farcela.

Sosta all’autogrill, scendi ti stiri come una vecchia camicia rimasta chiusa dentro l’armadio, dai il cinque a chi era nelle macchine dietro, cerchi un contatto, cerchi di prenderle tutte per mano in una sorta di girotondo che spezzi la tua tensione.

Occhiali scuri, capelli ordinati, scarpe di colori improbabili, felpe legate sulla vita e vite legate da uno sport, un maledettissimo sport che ancora ti infila a forza le farfalle nello stomaco, l’ansia nelle tempie , l’amore per le donne  li dove deve essere, dentro i tuoi occhi che trasparenti possano comunicarlo senza filtri.

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Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente ma è uno zingaro, è un trucco, non so cosa sia la vittoria, non so cosa sia la sconfitta, non mi interessa la fine, piuttosto inseguo le emozioni che riesco a vivere nel tragitto, perché tutti dovrebbero sapere che non è così importante cosa trovi al  traguardo ma ciò che provi mentre corri verso di esso ed è qui che trovo serenità.

La serenità di sentirmi innamorato della mia squadra, di quel che faccio durante la settimana quando chino il capo e mi infilo il fischietto ed il cronometro al collo come se stessi inchinandomi ad un rito sacro, sacro come le emozioni che vivi, sacro come il tempo che corre dentro e fuori dal display del cronometro, sacro come la chiesa dove parcheggiammo con Gisberto quando era appena nata questa rubrica, sacro come lo spogliatoio ed i suoi riti perché è proprio qui che siamo ora.

Siamo dentro il nostro spogliatoio, ci siamo lasciati dietro migliaia di Km, decine di infortuni e qualche selfie da riguardare tra qualche anno per ricordarci chi eravamo, tantissimi primi tempi giocati con sufficienza ed altrettanti secondi vinti con grande rabbia ed agonismo, abbiamo attraversato ponti sul passato e sul futuro e pontili per prendere questo traghetto che ci ha portato in Sicilia a giocarci l’ultima mano di poker.

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La partita inizierà tra 20 minuti, finalmente sono sereno, sereno perché siamo qui a giocarcela, perché mi sembra piuttosto giusto per i nostri sacrifici e per quanto impegno ci abbiamo riversato dentro, mi sembra tutto così giusto e poi vada come il Dio pallone vorrà.

C’avemo forza e voja più de tutti
Annamo là dove ce stanno ‘i morti,
anche se semo du’ ossa de prosciutti
ce vederà chi c’ha gli occhioni sani
che ce dirà: “venite giù all’inferno
armeno c’avrete er foco pell’ inverno”.

Si c’hai un còre, tu me poi capì
Si c’hai ‘n ammore, tu me poi seguì
Che ce ne frega si nun contamo gnente
Se semo sotto li calli della gente.

Annamo via, tenémose pe mano,
c’è solo questo de vero pe chi spera.

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