Serie A

Dal Brasile all’Italia sulle ali del futsal. Tampa e l’avventura Tikitaka

Foto 19zerosette

Molti sono i fattori che entrano in gioco per permettere ad un aereo di decollare: la spinta in avanti, il peso, la resistenza e la portanza. E’ proprio quest’ultimo a permettere all’aeromobile di staccarsi da terra, il fenomeno fisico che consente alle ali di generare una forza capace di spingere l’aereo verso l’alto.
Una questione di flussi d’aria e aerodinamicità. Di fisica.
Immaginiamo di aver un gran desiderio di viaggiare. Cosa facciamo, prima di cercare su internet il volo che potrebbe portarci nella destinazione desiderata? Fissiamo lo sguardo al di là dell’orizzonte e con la manina fendiamo l’aria con un movimento ad imitare quello di un aereo che si stacca da terra.

Tampa, al secolo Lediane Marcolan, per rafforzare immaginazione e volontà, ha un piccolo aereo tatuato proprio sulla mano, in quello spazio bianco tra il pollice e l’indice. Da lì, partono tutti i desideri. “Mi piace viaggiare, mi piace molto. Ecco perchè ho scelto di disegnarlo anche sulla pelle. Appena posso, prendo e wroom, parto“.
Dopo aver sostato per un po’ nella sua terra d’origine, la destinazione scritta sul biglietto di volo è Francavilla al Mare, Italia, Abruzzo, Serie A.

Esperienze non propriamente felici quelle italiane fino ad ora: Pescara, nell’anno della debacle sportiva, e Terni, prima del suo ritiro dalle scene. Eppure, la voglia, l’istinto, la caparbietà forse, hanno generato la spinta in avanti necessaria a permettere alle ali del suo aereo di vita personale, di staccarsi nuovamente da terra in direzione vecchio continente, Europa, Italia.
Dopo aver vinto la Taca Brasil con le Leoas da Serra, mi sono detta che era arrivato il momento di provarci di nuovo, di tornare in Italia“.

tampa

Non c’è due senza tre, nella speranza che sia quella buona. “Mi piacerebbe rimanere, almeno quattro o cinque anni. Giocare e vincere qui. Ho ricevuto diverse proposte in estate ma, parlando con Marco Tiberio, mi sono resa conto che Francavilla poteva essere il luogo e la realtà ideale dalla quale riprendere il rapporto finora travagliato con questo Paese. Ho ricevuto le rassicurazioni necessarie, mi sono fidata della sua parola. Confrontandomi con Debora Vanin e Adrieli Bertè poi, ho capito che poteva davvero essere questo il mio posto“.

Aspetta però che vinco una coppa, prendo il primo volo e parto. In valigia, il desiderio di rivalsa e la voglia di tornare tra le prime della classe. “Personalmente mi piacerebbe tornare tra le prime dieci giocatrici al mondo. Come gruppo, voglio vincere. Chi non lo vorrebbe? Il Tikitaka è il posto giusto? Credo di si. Sono arrivata da poco meno di un mese, ma ho sensazioni più che positive. Ho trovato una realtà nella quale ci sono tutte le condizioni per costruire qualcosa di grande. Su tutti, è l’atmosfera che si respira a fare la differenza.

Sembra di essere in famiglia. Spesso mi è capitato di sentirmi come “la brasiliana che gioca perché è brasiliana”, slegata dal resto del gruppo. Qui invece non ci sono differenze di sorta tra noi atlete. Tutte hanno la consapevolezza di far parte di un gruppo nel quale ognuna è funzionale. Non c’è la fazione italiana e quella straniera, troppo spesso presente, si lavora e si vive tutte insieme, con un’intesa eccezionale dentro e fuori dal campo“.

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L’inizio di una nuova era, come canterebbe Lorenzo Cherubini, un altro che a soprannomi va forte. Mi fermo a pensare sulla faccenda dei nomignoli. Non è che esistano solo in Brasile. Chi di noi non ne ha avuto o ne ha uno. Ma la questione è personale, rappresentativa di un legame speciale tra due o più persone che condividono il tragitto della vita. In Brasile invece è come se fosse un riconoscimento pubblico. Il soprannome che ricevi da bambino, lo fai tuo, diventa il tuo secondo nome. O forse il primo. Fatta eccezione per Vanin, che miuda non è che possa troppo sentirlo oramai.

Quando giocavo con Debora alla Chapecò, si che era miuda, la più piccolina. Tampa ha un’origine simile. Ho iniziato a giocare a nove anni e sono passata molto presto nella squadra delle grandi. Tra loro, ero la più giovane ed è così che è nato Tampa. In brasiliano, indica il tappo della bottiglia, una cosa piccola piccola. Mi sono affezionata a questo nome, tanto da farlo mio. Ho provato un anno a giocare con la scritta “Ledi” sulla maglia, ma non mi riconosceva nessuno. Lediane è un bel nome, ma Tampa sono io“.

Tampa. Numero 5.
No, non è un nuovo profumo, nessuna concorrenza alla Chanel. E nessuna dietrologia numerica. “E’ un numero che mi piace, graficamente. Tutto qua. Mi piace il disegno che ha, le curve e gli spigoli che alterna. Mi è capitato di giocare con il 15 una volta, perché il numero che volevo era già preso. Alla prima occasione però, sono tornata alle origini“.

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Cinque, come il pentagramma musicale. Cinque, come i giocatori in campo in una partita di futsal. Cinque, come Tampa, il quinto elemento.
Non si offenderà Luc Besson per la citazione spero, anche se Tampa non ha il caschetto rosso di Milla Jovovich.
Di rosso qui, c’è solo quello accostato al giallo Francavilla, e quello che colora il cielo sul mare la mattina.

A fare da contrappeso all’accoglienza calorosa ricevuta dalla numero 5, il covid. “Sono arrivata qui ad inizio gennaio, un paio di allenamenti e subito in campo contro la Kick Off. Poi il mio compleanno e, come regalo, ho ricevuto la positività a questo virus. Non proprio quello che speravo per festeggiare il tempo che passa. Ma, proprio perché passa, ci siamo finalmente liberate di quest’ospite sgradito e siamo tornate ad allenarci con intensità“.

L’intenzione è quella di festeggiare compleanno e primo gol già domenica, contro il Bisceglie, sul campo dell’Emilia Romagna Arena. “Non ci sarebbe palcoscenico migliore no? Gol e mani al cielo come gratitudine a colui grazie al quale tutto posso”. Gratidao. Perchè, in fondo, nulla è scontato e tutto è un dono. “E, perché no, i tre punti. Considerando la doppia trasferta ravvicinata, sarebbe importantissimo capitalizzare quanto più possibile“.

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Parla poco Tampa, spesso lo fa con gli occhi, travalica il linguaggio semantico con la scusa di non parlare bene l’italiano. “Ho fatto un po’ di difficoltà a recuperare la lingua italiana. Sono ancora tanti, troppi, i termini che non ricordo. Ecco perché non mi piace molto fare interviste”. Si scherza, ma il mal di pancia giornalistico è vero, nonostante sia avvezza alla pratica. “Con Amandinha, eravamo le uniche che chiamavano per i commenti pre e post gara ad esempio“. Tornerà senza dubbio l’abitudine alle chiacchierate giornalistiche, se fatte davanti ad un cornetto e un caffè poi. Tornerà l’abitudine al gol e quella all’esultanza.

L’abitudine che invece proprio non vorrebbe che tornasse è quella ad uscire ai quarti di finale di Coppa Italia. “Ho vissuto due volte l’esperienza della Final Eight. Con il Pescara, siamo arrivate nel bel mezzo della crisi societaria, con una rosa che aveva perso tantissimi elementi. Un’esperienza che non ricordo con piacere. L’anno successivo, con la maglia della Ternana, abbiamo ricevuto una sonante sconfitta dal Montesilvano. Insomma, con la Coppa Italia ho un rapporto conflittuale che spero di risanare proprio qui, con il Francavilla. Se così non fosse, può significare solo una cosa: il problema sono io. Quindi, al caso, per le prossime, starò felicemente seduta in tribuna“.

Non credo che ci sia scritto proprio questo nel futuro della brasiliana. A guardar bene, non lo crede neanche lei, determinata com’è a dare il meglio di se stessa per la causa giallorossa.
La spinta in avanti, l’aria sotto le ali e la musica gospel nelle orecchie. L’aereo Tikitaka è pronto a decollare.

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