Futsal

Diario di Coppa 2019 [05]

diario

Ultimo giorno, finalmente.
Il sole mi trova già sveglio, niente colazione del campione e niente casa AGS sarà per la prossima volta, forse. Le luci nella scatola e anche tutto il resto. Ultimi giri d’orologio a Faenza e poi si torna “giù” qualsiasi sia la direzione da prendere.
Sfoglio i social con i soliti tromboni che parlano di qualcosa che seguono una volta l’anno a spese di altri e tessono le lodi dei loro datori di lavoro ma non conoscono nemmeno i nomi dei giocatori. Allenatori presi a caso e allenatori che sono un caso. Padri padroni di un movimento che racconta di voler diventare grande ma da grande non vuol comportarsi altrimenti tra le pieghe della sua storia non riuscirebbe più a nascondere l’approssimazione e gli impicci.
Camere d’albergo, B&B e una città che si riempie e si svuota come un colpo al petto che ti svuota i polmoni.

Le colazioni cinesi come i comunicati di certi soggetti e il caffelatte quando invece ho chiesto un cappuccino e la pasticceria quella buona a 700 metri da casa. Le storie, quelle belle e quelle brutte di vigilie agitate e di cambi di vita. Di “se hai problemi, risolvili” e del “Sindaco” e Anthea che crescono ma li vediamo solo nelle foto.

Suono di tasti premuti e di giornate che non t’importa nulla se non c’è dentro una storia da raccontare. Giorni e ore di persone scomparse e poi riapparse ma se rimanevano nell’oblio era meglio che non ho voglia nemmeno di ricordare chi sono.
Storie di orticelli con intorno muri alti e storie di muri fatti per lasciare fuori qualcuno o qualcosa.
Uno sport senza volto è destinato a restare relegato nell’ombra a vedersi scavalcato da qualsiasi cosa perfino da dei nerd sovrappeso che giocano ai videogame.
Ci sono quelli che si nascondono dietro a mille profili falsi e grazie per le visualizzazioni e le interazioni e anche per la squalifica fino al 2000mai e per l’inibizione.
Racconto lo sport anche quella parte che non mi piace perché non metto la testa sotto la sabbia, quando fingo di non sapere dei debiti, delle bugie e degli “impicci” e perché non posso dimostrarli. Conservo tutto, gli screen, i file audio, i video, torneranno utili.
Le matricole passano, certi soggetti anche, potranno intitolare premi ma ho memoria, delle squalifiche e degli sputi, dei membri al vento nelle finali regionali, dei fallimenti e dell’odio ingiustificato e no, la morte non cancella nulla.
“Comunque andrà sarà un successo” è solo uno slogan geniale di un Chiambretti costretto a dimenarsi tra le pieghe di un vecchio Festival di Sanremo fallito già prima di partire.

Street Food e porte chiuse e in fila con il pubblico pagante e poi l’attrezzatura da preparare.
Il tunnel che porta al campo e mancano sempre due minuti, i sorrisi nervosi e la voglia d’iniziare per provare a vincerla questa benedetta coppa.

Primo Tempo e 4-1 e poi i visi stravolti dalla fatica per chi è in svantaggio mentre crescono sorrisi sul viso di chi è in vantaggio.
Alla fine da una parte se ne contano dieci e dall’altra due. La rabbia e l’orgoglio che un po’ la capisco ma non così, non oggi.
Il sorriso di Carol è una di quelle cose che mi sorprendono sempre come la bicicletta sulla testa di Noe e come quelli che fanno sempre lo stesso errore.

Le maglie tirate e le dita rotte e quel “entra e fallo per noi”.
La panchina come luogo assoluto, dentro un tempo diverso, dove tutti sembra vogliano sedersi e qualcuno nemmeno alzarsi.
Il commento a microfono aperto, indegno per chi viene pagato per raccontare il futsal femminile ma tanto poi se ti cacciano dallo spogliatoio e dalla panchina in una finale scudetto non è mai colpa di nessuno, forse di quello che sussurrava ai cavalli.

Il palazzetto si riempie e sembra quasi pieno, in campo quasi un classico di questa stagione.
Con la tifoseria è tutto diverso e a Pesaro ne sanno di come si fa il tifo in un palazzetto solo con un pugno di supporters.
Lasciamo così Faenza, con le ragazze che alzano la coppa nell’intervallo, il dubbio che il commentatore tecnico della gara femminile non debba mai più avvicinarsi ad un microfono per sgombrare il campo da quella sensazione che le ragazze restino “figlie di un dio minore”.

Le code verso Bologna ma noi che scendiamo verso sud.

Sulla strada di casa con la striscia di asfalto che s’allunga sotto le ruote penso all’allegria sudamericana di Debora che mi ricorda un personaggio di Soriano: “Tu eri come Scotta, ogni pallone che ti passavano era gol oppure stendevi un cane” e la foto con la sediolina e tu che sei piccola allora come adesso ma piccola, in un modo diverso.
La luna nel mare e siamo quasi a casa anche se è notte fonda Federica è contenta perché torna nella sua città, quella che può chiamare casa.
Odio tornare più di quanto riesca ad odiare la partenza, perché in un borsone gettato in un angolo mai pieno e mai vuoto ho raccolto una vita di ricordi e forse la stanchezza mi fa chiudere gli occhi per una volta senza voler che arrivi l’alba.

 

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