Sport

It’s about the shoes you need to fill in…

Non si scrive mai quando si è di cattivo umore, ne escono dei testi pessimi, pieni di livore e di risentimento.
Una volta credevo di scrivere meglio quando ero di cattivo umore, quando avevo l’impressione che nulla funzionasse, forse in parte era vero ma leggendoli ora a distanza di anni, ci vedo solo il livore e la rabbia.
“Non c’è nulla di buono che viene fuori dalla rabbia” mi ha detto un giorno un uomo più saggio di me.
Non sono un cronista, continuo a scriverlo spesso, perché c’è qualcuno che confonde le mie parole con le cronache sportive, non lo sono, non hanno nemmeno l’ambizione di esserlo, sono semplicemente il racconto del mio viaggio in questo sport, delle persone che incontro, dei fatti che accadono, filtrati da me, dalla brutta persona che sono.
Domenica.
Destinazione Roma.
Greta si è prenotata per un posto nella nostra macchina ad inizio settimana. Greta ha solo 14 anni e sembra incastrata in un corpo più grande di lei, ci prova a riempirlo in tutti i modi, ogni tanto però la bimba che è in lei tracima e noi sorridiamo perché le vogliamo bene così, incasinatissima.
Viaggia con un tavolino da picnic al fianco, nell’ultima trasferta ad Ancona ci siamo adattati su un banco di scuola, per colpa mia, “figurati se non hanno un tavolo…” avevo sentenziato con Federica. Ho passato quel pomeriggio in piedi chino su quel banco di scuola, con 35 anni di ritardo.
Abbiamo un posto libero e fretta di partire, ci ritroviamo nel punto d’incontro della squadra, prendiamo con noi Valentina e si parte.
Vado via chiedendomi come faccia ad essere in ritardo all’appuntamento per la partenza qualcuno che abita di fronte al parcheggio scelto come luogo di ritrovo.
Abbiamo già coperto questo tragitto svariate volte nelle ultime settimane, mai però in compagnia di queste due compagne di squadra di Federica.
A metà del viaggio la Valentina che tutti vedono, sparisce e ne prende il posto una più privata, sempre prigioniera dei suoi demoni, ma senza quella patina di leggerezza con la quale copre solitamente la sua immagine.
Quando più tardi la vedo lanciare, male perché nessuno le ha insegnato come fare, il pallone da football mi trovo a riflettere sulla donna che vedo e sull’atleta che potrebbe essere.
Forse non vuole, forse è più semplice così, forse quando le urlano contro lei reagisce semplicemente chiudendo fuori tutti e tirando fuori il peggio di se. Forse bisogna prestare attenzione ai suoi silenzi, rari, invece che al fiume di parole con il quale cerca di soffocarti, perché nessuno le faccia una domanda, perché nessuno le guardi dentro. Sfrontata fino all’eccesso, se l’aggredite invece di ascoltarla diventa una donna che non riuscite a riconoscere. Rimango ora della stessa idea che le dissi un giorno sulla riviera di Francavilla, “se impari ad ascoltare quelli che ti vogliono davvero bene, che giocatrice diventeresti”.
Ne sono convinto ancora di più oggi.
Arrivando a Roma, nei pressi di Portonaccio mi assale quell’inquietudine che non mi ha mai abbandonato da quando ho lasciato la Città Eterna. Abbiamo un rapporto difficile, io e i sampietrini di Roma, io e la città ci amiamo perché li ho passato un bel pezzo della mia vita consumandolo al doppio della velocità. Ci odiamo un po’ perché non tutti i ricordi, sono ricordi felici.
Al secondo tentativo troviamo il centro sportivo giusto, ci accolgono il vociare dei bimbi, c’è il bowl dell’under 13.
Ho provato a spiegarlo tante volte cosa mi accade in certi momenti, senza successo, quindi non ci proverò ancora. In uno di questi momenti, quel vociare di bimbi mi ha restituito i miei 15 anni, la base di Geilenkirchen, i lungi viali di asfalto vuoti la mattina presto, i pali bianchi nelle endzone, quel verde accesissimo dei campi e il rosso fuoco della terra rossa nei campi da baseball.
Ho sentito il rumore dei caschi e per un attimo ho visto sullo stesso prato giocatori intenti a lanciarsi la palla, che fosse tonda da softball che fosse ovale da football.
Se questo fosse un sogno ad occhi aperti ora dovrei sentire un odore di carne alla brace, annuso l’aria….non è possibile…odore di salsiccia… Ho abbracciato forte Federica e ho provato a raccontarle perché avevo quell’aria da bambino felice.
Ci avviciniamo al campo e ci sono questi bimbi, che corrono come possono a quell’età con indosso questi caschi che li fanno assomigliare a dei “bobble head”, che s’impegnano al massimo, si gettano senza paura e sono bellissimi, meravigliosi anche quando rivolti all’arbitro mimano il gesto dell’incompleto come consumati veterani. Nota a margine per quel bimbo, il gesto giusto era quello di mimare il primo down nella direzione opposta, era una corsa corta non un lancio, va bene così sei in uno dei miei ricordi felici di quella giornata, grazie, chiunque tu sia.
Odio le urla, la gente che urla, chi alza la voce e detesto chi lo fa su un campo, di calcio, da football, di softball, di futsal.
È un problema mio, tutto mio lo so, questo condiziona però tutto quello che accade a ciò che racconto da questo momento in poi.
L’inutilità pedagogica di urlare ad un adolescente, un bimbo o un adulto è così palese da non doverne nemmeno scrivere, farlo a ragazzini che non hanno nemmeno idea di quello che stanno facendo non solo è un crimine, ma è uno dei peggiori. Trascurare che esista un sottile confine tra l’intensità e l’aggressività insensata è ai miei occhi il peggiore dei crimini.
Per questo, tra le urla di adulti troppo interessati a vincere invece che a far innamorare di questo sport dei bimbi, voglio ringraziare il coaching staff della under 13 dei Guelfi, che dopo aver subito una lunga corsa del runningback avversario, il bimbo finisce a terra nella loro sideline. Loro non solo l’aiutano a rialzarsi ma si congratulano per la giocata, con tante pacche, sulle spalle e sul casco.
Giovanni, bimbo center della Legio, com’è che ho imparato il tuo nome? Facile, un adulto ti ha detto: “Giovanni attento così ci togli delle possibilità….” . Tu l’hai guardato perplesso come fanno di solito i bimbi quando vorrebbero sentire parole che riescono a comprendere e con un tono meno serioso.
Eri così impegnato a cercare di fare bene che i tuoi errori sono frutto solo dell’inesperienza, continua così, sei bravissimo.
Il tempo scorre veloce verso la partita della Under 19. Lazio Marines, la corazzata del girone, contro i Pescara Crabs, dieci ragazzi abili e arruolati, tre infortunati.
Due degli infortunati sono qui, a dare sostegno alla squadra, perché conta esserci per i proprio compagni, perché quando t’importa non solo a chiacchiere ci sei, non vai al cinema, non te ne stai a casa.
C’è tanta gente brava a chiacchiere, brava a fare solo quello in cui riescono ad eccellere, quelli che ci mettono la faccia solo quando le cose vanno bene. Ci sono poi i codardi, quelli che alla prima difficoltà si tirano indietro, quelli che non ci sono quando serve, quelli che non rispondo all’appello. CI sono quelli che trovano le scuse e quelli che trovano una soluzione. Tu che mancavi appartieni alla categoria di quelli che trovano delle scuse.
Siamo sulla sideline avversaria, i ragazzi in bianco completano un passaggio ed esultano come se fosse un passaggio per touchdown da 80 yarde, qualcuno afferma “stanno messi male se esultano per un completo”, non sono riuscito a fare il bravo, mi sono voltato e mi sono sentito in dovere di replicare “si stanno messi male ma sono qui a farvi giocare la partita”. Occhi bassi dall’altra parte e fine della discussione, certo poi sorrido anche io quando indicano il numero 28 pescarese placcato ancora nel suo backfield e additano le pose strane con le quali va a terra, devo ammetterlo sembra davvero una marionetta rotta.
Se raccontassi solo di una partita intensa, del fervore dei giocatori Crabs sempre in campo mentirei.
I Lazio Marines sono una squadra, organizzati come una squadra, piena di atleti e di talento, gli basta premere leggermente sul pedale dell’acceleratore e mettono 14 punti sul tabellone. Lanciano profondo, corrono tra i blocchi, insomma c’è poco da fare, senza veri atleti in campo il buon Luciano Spalletti direbbe “nun si vincan le partite”, loro li hanno e si vede.
Il vero limite della formazione romana è non chiudere subito la partita, controllano lo scorrere del gioco, mettono in campo a rotazione giocatori che hanno bisogno d’esperienza. Biancolella continua a soffrire la pressione della linea avversaria e soffre i pesi leggeri impiegati nella sua, ma è bravo anche con i piedi e le sue play action mettono in difficoltà una difesa costretta a coprire spesso la profondità bruciando energie preziosissime.
Quando vedo Michele smanacciare una ricezione come fosse in difesa mi viene il dubbio che la stanchezza abbia influito sulla giocata, che pensasse di essere ancora in campo a difendere.
Guardo Mattia lanciare e vorrei avere il potere di vedere cosa gli passa davvero per la testa, come fa a ripetere che non può giocare in quel ruolo. Poco dopo lo vedo giocare da linebacker inseguire il numero sette avversario, sedici anni di puro talento e quando gli sfugge gli rimane disperatamente incollato alle caviglie, si fa trascinare per qualche metro poi entrambi cadono al suolo.
Nevio si batte come un leone, due ricezioni nel traffico, senza paura e se ti guardi ora il dito piegato ad un angolo strano, sai che ne è valsa la pena, che hai misurato il tuo coraggio correndo verso il pallone incontro ad avversari più grandi di te.
Federica mi indica Lorenzo, non quello sulla sideline con il numero 33, ma quello in campo con il numero 45. Guarda verso la sua sideline, nello sguardo gli leggi lo smarrimento, la paura di non essere abbastanza bravo. In campo è un leone, nessuna paura, si butta nella mischia, si lancia in traccia, calcia lungo, tutto quello di cui c’è bisogno non per se, ma per la squadra.
Ci sono ancora le urla degli adulti, non le sopporto, non servono e se servissero davvero urleremmo tutti invece di parlare, nessuna scusa, quelli che sono in campo sicuramente non traggono nessun insegnamento dalle grida.
Lo spettacolo che offrite è pessimo, davvero.
Arriva la pioggia, improvvisa e violenta.
In quell’attimo dove ti sono contro anche gli elementi della natura, i Crabs decidono di fintare un field goal che libera Michele nello spazio, sembra la fotocopia della sua corsa contro i Titans lo scorso anno, questa volta finalmente riesce a “girare l’angolo” e sembra libero. Quando un avversario lo rimonta confesso di aver sussurrato “ora si spaventa ed esce fuori”, invece eccolo che mi sorprende e abbassa la spalla e punta il piloncino della endzone, fa una giocata da ricevitore vero. Sei punti, i primi della stagione.
Michele è il classico giocatore che fa cacciare gli allenatori, gli vedi fare cose miracolose e lo tieni in campo attendendo la giocata, questa volta c’è voluta un’ora. Quanto tempo perso a correre lateralmente, a lamentarsi con l’arbitro?
Grazie ragazzi, tutti, Marines e Crabs.
Ne è valsa la pena anche questa volta, per ogni chilometro percorso, per ogni linea di febbre, per ogni dolore.
Grazie perché ho investito il mio tempo e voi, tutti mi avete restituito un tesoro.
Dimenticavo la partita è finita 35-7 per i Lazio Marines, ho dovuto chiedere a Federica per confermare il risultato.

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