A cinque anni ho iniziato a praticare sport. Dapprima danza classica. E’ durata poco, giusto il tempo di comprare le classiche scarpette rosa che tanto fanno sognare le bimbe.
Senza neanche passare dal via, mi sono infilata un paio di mezze punte bianche e, con nastro, palla, clavette, cerchio e corda, mi sono cimentata con successo in un intenso anno di ginnastica ritmica. Ma non ero ancora soddisfatta. A cinque anni si vorrebbero fare tante cose.
Una cosa però l’avevo capita: il mio sport era la ginnastica. Senza dubbio.
Ecco allora che scopro, con immensa soddisfazione, la ginnastica artistica. Il mio sport, quello nel quale ti trovi a tuo agio, quello per il quale non ti pesa la giornata scolastica e fare i compiti la sera, quello capace di farti innamorare profondamente e che ti porta a non abbandonarlo mai nonostante le difficoltà e gli infortuni. E’ stata una lunga storia d’amore che, come ogni prima storia importante, diventa la tua pietra angolare sportivo-emotiva –semi cit.-
Una volta che la schiena ha iniziato a fare capricci, ho ripiegato nell’atletica – 100m ostacoli nonostante la mia non altezza- e nel karate, scoprendo le potenzialità del mio fisico e prendendo a piene mani dall’eredità della ginnastica.
La vita però ti fa fare giri strani e, dopo un periodo effettivamente un po lunghetto di inattività agonistica, sono arrivata, in un giorno di fine primavera, a scoprire che sul campo sintetico dello stadio di Zanni non si giocava solo a calcio. A me poi hanno dato in dotazione piedi buoni solamente per saltare e correre.
Ho scoperto il football americano, femminile.
La follia che pervade il mio essere mi ha spinta a cimentarmi in questo sport nonostante la poca altezza, il poco peso e il mio assomigliare ad un chiupa chups con il casco in testa. –testa piccola, casco arancione-
Sono quattro anni oramai che pratico questo sport con un discreto successo e trovando tantissimi benefici.
Ma tutto questo preambolo non è per raccontare una storia di “yes we can” sportivo. No no.
Da quando seguo il calcio a cinque femminile, guardando le giocatrici in campo ed osservando i loro gesti e i loro comportamenti, nella mia testa grida forte una domanda: ma perchè hanno –quasi- tutte problemi di comodità dell’abbigliamento intimo? Per dirla come realmente la penso, perchè indossano mutande scomode?
In ogni partita queste donne, calciatrici, atlete, riescono ad impressionarmi con le loro giocate –o non giocate- e con il continuo sistemarsi degli slip, gesto così irrazionale quanto poco elegante.
Questo perché la regola numero 1 di una ginnasta, che ti viene lasciata in eredità –ed imposta- il giorno numero 1 di allenamento è: se anche ti stanno scomode, mai mai e poi mai aggiustarsi le mutande durante un esercizio. E buona parte dei primi anni di allenamento erano costellati da frasi come “ferma! Non toccare il body!” oppure “non sistemarti gli slip durante l’esercizio che non solo è brutto assai ma ti tolgono punti”.
Ecco, da qui ho imparato che le soluzioni sono due (non considerando come soluzione decidere di non indossare biancheria intima): tanga o mutanda della nonna. Personalmente opto per la seconda soluzione, soprattutto durante le partite di football americano nelle quali la sensazione che almeno gli slip rimangano ben fermi nonostante cadute a terra, colpi, placcaggi e corse forsennate, da tanta sicurezza e genera quel sentimento di confidence che ti permette di affrontare ogni situazione di gioco con la giusta determinazione.
La soluzione numero uno per quanto mi riguarda, la trovo scomoda ma non per questo meno efficace.
Non voglio essere giudice dell’abbigliamento da adottare durante le gare, lungi da me, però la mia curiosità rimane. Quindi..perché? Perché indossare un paio di slip da sistemare ripetutamente durante tutta la partita? Qual’è il vantaggio? Raccolgo testimoniante ed anche tentativi di conversione, per quanto io rimango fedele alla mutanda della nonna.