Final Eight

Lo stile di vincere

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Cosa divide quel gruppo di giocatori che stupirono il mondo con il calcio totale e indosso la maglia orange dell’Olanda da quel gruppo di giocatori guidati in panchina da Osvaldo Bagnoli, capaci di appuntare uno scudetto sulla maglia del Verona?
Il pragmatismo.
Il nome nell’albo d’oro.
L’organizzazione di gioco nasconde i difetti, eleva la normalità a valore aggiunto esalta il talento se non prova a ingabbiarlo.
Preben Elkjær Larsen, “Cavallo Pazzo” nell’anno di grazia dello scudetto 1984 – 1985 segna anche chiudendo la porta dello spogliatoio.
Cosa c’entra tutto questo tra gli appunti di una doppia semifinale di Coppa Italia di Futsal Femminile?
Spesso mi chiedo anche io perché collego così apparentemente a caso i pezzi di un puzzle.
Sarà per la forma fisica di Amparo Jimenez Lopez, per lo strapotere assoluto mostrato scorrazzando indisturbata sul parquet nero.
Sarà perché con tre tiri in porta segna tre gol.

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Considero il cinismo sportivo una virtù e l’essenzialità di una imbucata in profondità nello spazio il gesto tecnico e atletico più bello di ogni forma di calcio.
Pesco immagini a caso dalla cartella dei ricordi di una sera intensa. Nicoletta con la testa fasciata come un guerriero vero e il grido di paura di mamma Angela in tribuna quando la sua piccola cade pesantemente in terra e batte la testa.
Ogni agonista che si rispetti è inconsolabile nella sconfitta, il tempo lenirà quello sconforto e lo spronerà a migliorare oppure lo farà crollare e cadere nell’oblio.
Araceli non è un grande giocatore solo perché è capace di straordinari gesti atletici. Lo è perché la sua assenza è se possibile più rumorosa della sua presenza. Capace di conservare una dignità nella sconfitta che la eleva un gradino sopra tutte le altre. L’arroganza sportiva esiste sono all’interno del terreno di gioco, fuori c’è il rispetto di un avversario senza il quale tutto questo non sarebbe possibile.

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“Io so perdere, ma tu devi imparare a vincere”.
In una frase, in un attimo di rabbia c’è l’immagine di una nottata storta, di una intelligenza viva e di un animo scolpito nell’argento vivo.
C’è la partita più bella di una stagione piena di ombre che sembra destinata ad un tramonto solitario come nei film western che tanto piacciono a mio padre. Invece lei s’incolla al più pericoloso giocatore avversario  e lo cancella dal campo.
Filipa è di casa. Lo ripeto spesso, mia madre la considera come una figlia e mio padre prima di chiedermi dove sono o com’è andata la partita chiede: “come ha giocato Filipa?” e poi aggiunge “di a Ersilia che ormai non si ricorda più di me”.  Perfino mia sorella, quella vera mi chiede di lei.
Potrei dire che ha giocato la migliore partita della sua stagione, ammettendo che ha giocato ai suoi livelli solo a tratti. Potrei dire che finalmente s’è liberata d’un peso che c’era solo nei suoi pensieri ma queste sono conversazioni che rimangono vincolate dal segreto “fratello e sorella”, o forse Zio – Nipote come direbbe Federica.

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La notte s’è presa anche parte delle ore del sonno e la stanchezza la metto in un cassetto per tirarla fuori più tardi.
Non c’è tempo ora, state per andare in scena.
Sipario.

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