Futsal

Se fossi un Mister – Lo racconterò a mia figlia

Lei ha due nocciole al posto degli occhi, gli zigomi alti, fieri, dicono che non si arrenderà con troppa facilità, quando sorride le spuntano sopra gli zigomi le guance rosa, intense, vive, irradiano calore, quel calore di chi sa quanto costa un sorriso e non puoi di certo darlo per scontato, forse è per questo che non ne ho dimenticato nemmeno uno di quei tanti sorrisi che mi ha regalato.
Ogni anno che giocavamo contro la sua squadra lei c’era, spesso si vinceva tanto a poco almeno nei primissimi anni ma lei la ritrovavi li, al suo posto pronta a darti battaglia, pronta a dirti io sono il capitano di questa squadra, quando sei passato sopra a tutte mantieni le energie per far fuori anche a me. Credo questo sia uno dei motivi per cui mi colpì, certo ne avrei potuti trovare mille altri ma una donna che combatte contro il mondo è una di quelle cose a cui un uomo non sa resistere. Prima ti chiedi dove trova la forza, poi la ammiri ed alla fine la vuoi dalla tua parte. Io che non amo perdere tempo ho deciso presto che la volevo con me, male che fosse andata avrei sempre avuto qualcuno con cui leccarmi le ferite in caso di sconfitta.

Riuscimmo a passare insieme due anni, io in panchina e lei in campo, oggi forse dico che l’avrei anche voluto assaporare quel momento di sconfitta con lei ma non era scritto nella nostra storia, vincemmo tutto quello che potevamo insieme, certo non io e lei da soli ma grazie all’aiuto di tutti, lei però credo abbia capito fino in fondo cosa stavamo facendo. Oggi spesso ancora si confonde, a volte mi da del lei, è una forma di rispetto che apprezzo, non è un modo di fare convenzionale, in ogni lei che mi rivolge c’è un grazie per quelle emozioni condivise, per aver entrambi creduto che alcuni limiti si potessero combattere, abbattere, vincere.

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Ad oggi è un concetto che in tante ancora non riescono a comprendere ed affogano nei limiti della propria mente.
Noi non abbiamo vinto due campionati, abbiamo vinto le credenze popolari, abbiamo vinto i nostri limiti, ci siamo insegnati che si può essere ognuno nel proprio ruolo due persone che si danno la mano e percorrono una strada insieme. Ci siamo un po persi, in realtà non è cosi, io sono convinto che quel che succede a me lo sente anche lei, io la porto in campo, nello spogliatoio, la immagino seduta sulla panchina che stringe i pugni mentre andiamo vicini al gol del vantaggio, la vedo alzare la mano mentre chiedo se qualcuno non se la sente di tirare il rigore e non è un atto di poco coraggio ma piuttosto di grande umiltà.

Abbiamo trasformato la vittoria e la sconfitta se mai l’avessimo potuta conoscere insieme, in un sentimento, l’abbiamo racchiusa nel rispetto, nella formalità del lei, nell’abbraccio che riusciamo a scambiarci una volta l’anno, ognuno immerso nei ritmi della propria vita, nel rispetto che gira nei suoi occhi color nocciola quando ci scontriamo di nuovo, ognuno in una nuova squadra.

Un giorno in ritiro eravamo io nella stanza 302 e lei nella 303, avrei potuto bussare sul muro e sussurrarle invece le scrissi, domani tocca a te e lei mi disse mister io sono contenta anche cosi, non devo giocare, per me è un premio esserci, un premio ai miei sacrifici, alle mie lotte, al mio non farmi negare mai da nessuno la possibilità di provarci. Non la ascoltai, avevo bisogno di lei in campo, non le volevo dare un premio, volevo diventare campione d’Italia e se non ci fosse stata lei quel giorno forse ci sarebbe mancato quel tassello che ci portò ad esserlo. Nei suoi occhi marroni, due nocciole dolci, nei suoi zigomi alti pieni del rossore del suo imbarazzo, composta nella sua acconciatura da donna vera a fine partita mi ha detto:
“Grazie mister, vorrei una figlia a cui raccontare che sua madre è stata campionessa d’Italia, ora la storia l’ho scritta manca solo a chi raccontarla.”

Qualche giorno fa affronto con fastidio il suono di un messaggio whatsapp, sarà sicuramente uno di quei gruppi dove c’è lo scemo del villaggio, che poi di solito è il mio ruolo, che scrive senza sosta. Sblocco il cellulare, si apre un’ immagine, un’ ecografia di un bimbo? Di una bimba? La apro e suonano quelle parole nel mio cuore, al ritmo del battito del mio cuore, ora non manca più niente per raccontare quella storia, mister non ci affronteremo in campo almeno quest’ anno, diventerò mamma.

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Ho scritto questo pezzo davanti ad una sua foto, ho aperto diverse volte l’immagine dell’ecografia, ho rivissuto ogni singolo istante insieme di campo, non sono stati tantissimi ma intensi come una folata di vento, mi sarei potuto girare e guardare in alto, la sua maglia è appesa sul muro del mio studio, c’è scritto grazie per avermi insegnato a volare.

Ci sono giorni in cui la mia testa è pesante perché non vinciamo, il mio corpo è slegato perché non trova un motivo vero, ci sono giorni grigi in cui la pioggia che bagna la città sembra dirmi di lasciar stare, non si combatte contro i mulini a vento, non si combatte contro le credenze popolari. In quei giorni li penso a lei, ferma in mezzo al campo, capitano di una squadra che è cresciuta ma che senza la sua caparbietà forse si sarebbe fermata, a lei che, non voglio giocare a me va bene esserci e poi entra e fa l’assist del 2-0 e chiude il match, a lei che non si ferma a prender fiato a fine partita e mi dice vorrei raccontarlo a mia figlia.

Ho rubato a questo futsal ed alle loro ragazze molto più di ciò che ho dato, grazie per avermi insegnato a volare, sei il mio ossigeno quando sono a testa in giù.

Spero di rivederla in campo e spero di vederla alzare ancora le guance sopra gli zigomi, anche se questo vorrà dire averla come avversaria ma questo sport mi ha regalato l’ennesimo momento per capire che lo sport deve unire e non dividere.
Io non ce l’ ho un figlio ed allora il naufragar m’è dolce nel racconto che darà la buonanotte al figlio od alla figlia di una mia giocatrice, dove magari sarò anche alto, biondo e con gli occhi azzurri e soprattutto sarò un bravo mister.

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