Se fossi un cronista sportivo, vi racconterei di una partita, forse di futsal femminile o forse no.
Di quelle che s’annunciano con la tensione che sale dagli spogliatoi agli spalti, che è cresciuta in settimane e che anche se non si dice, non è come tutte le altre.
Due squadre vere, uno scontro vero.
Non lo sono un cronista, passo le mie domeniche seduto sugli spalti, da qualche tempo ad osservare la partita come se si ripetesse ciclicamente, prima sul campo e poi sullo schermo e poi ancora lì, su quello che sembra essere il televisore del mondo, youtube.
Non guardo davvero la partita, il susseguirsi cronologico degli eventi non è il mio forte.
Osservo i protagonisti e cerco delle storie.
Il tabellone luminoso scandisce il tempo a ritroso, poco più sotto il riguardo del punteggio indica “uno a zero”.
La palla è sulla linea laterale, c’è un passaggio facile, all’indietro ad una compagna che si offre come appoggio.
“Non si passa la palla all’indietro”, deve esserle risuonato nella mente, un colpo di suola e la palla pigra finisce in fallo laterale. Si volta appena, s’incrociano gli sguardi e vola dall’altra parte un gesto di stizza.
Ho un ricordo seppellito da qualche parte, una voce, di un allenatore. Una scuola calcio persa in qualche campo troppo verde e troppo freddo che ripete fino allo sfinimento, “la rimessa laterale si fa solo in avanti”.
Come un monito, come a ricordarti che si avanza, si calcia in avanti, conta solo vincere.
Se esistesse un dio burlone, forse avrebbe dato a D. oltre che il carattere di Ibra, anche i suoi piedi, ma forse non ha abbastanza senso dell’umorismo.
Esistono due Ibra, quello sul campo e quello privato.
Quello privato ha il frigo sempre pieno, “perché da ragazzo ho patito la fame e non voglio che sia vuoto”, ma impone ai suoi due figli di consumare solo il pasto che viene servito loro, nient’altro. “Devono imparare che quello che ricevono non gli è dovuto”. Lo stesso figlio di immigrati, cresciuto ai margini della società svedese si è fatto scattare una foto dei suoi piedi e l’ha messa in bella vista in salotto, “perché tutto quello che ho lo devo a loro”. Non bisogna mai dimenticare chi si è, da dove si è partiti.
C’è l’Ibra sul campo, quello che salta l’avversario come se fosse ancora in un parchetto di periferia male illuminato, quello che invece di appoggiarla in rete di piatto sul palo lontano dal portiere, dopo una corsa di settanta metri palla al piede e un sombrero al suo marcatore, la spara di forza d’esterno sotto l’incrocio dei pali, dal lato sorvegliato dal portiere. [ti sarò eternamente grato per quel gol alla Roma. ndr]
Quello che guarda indispettito il nome sulla maglia di un avversario come a dirgli “scusa ma tu chi sei?” dopo averlo irriso tecnicamente lo fa anche moralmente.
Su quel rettangolo, vigono regole diverse, non dobbiamo essere amici, non dobbiamo volerci bene per forza, dobbiamo avere rispetto, l’uno dell’altro e dell’avversario.
Chiunque ha mai partecipato ad una competizione nella quale si tiene un punteggio non può mentire a se stesso, sa bene che alla fine conta la vittoria, quando le luci si spegneranno, sarà il tabellone con i numeri luminosi che tutti guarderanno.
Se hai mai giocato per vincere, sai quanto sia diverso anche il tempo quando sei in campo. Se stai vincendo continui a guardare il tabellone e ti sembra che tutto proceda al rallentatore, se stai perdendo invece, tutto accade maledettamente in fretta.
D. è uno spettacolo di giocatore, perché gliela leggi negli occhi la voglia di vincere, suona in ogni parola.
La sua voglia di vincere sta in ogni manata sulla schiena di un avversario, quando si volta di spalle per proteggere la palla, sta in ogni movimento assillante di pressing. Sa usare entrambi i piedi, né è così fiera che te lo ricorda ogni volta che la guardi giocare. Cerca di ficcarlo in testa anche agli avversari che cercano di fermarla, quando cambia piede solo perché può farlo, perché devi prestare rispetto per ogni minuto sacrificato in palestra, in piscina e sul campo.
Fuori dal campo è qualcosa di diverso, di privato e d’incasinato, come per le vite di tutti, le sue svolte sono solo sue, come lo sono le sue salite e le sue discese, io l’osservo dibattersi, scattare in avanti e tornare a coprire, ma è la sua storia privatissima che si dipana dal suo cuore.
Non so molte cose, ma una cosa la so.
Quando vincerai il tuo tricolore, quello che insegui da sempre, io sarò seduto sugli spalti, a guardarti finalmente sorridere felice e cercare di leggere il nome sulla maglia delle avversarie che hai finalmente battuto.
Ibra si scrive iniziando con una D.
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