Storie

MFC 2019 – Giorno Quattro e qualcosa

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“Cosa vuoi fare da grande?”
“Voglio diventare la miglior giocatrice e giocare in altri paesi.”
La voce di Erin è quella di una bimba di nove anni, il suono delle sue parole sembrano però arrivare da una donna.
“Cosa pensi del tuo compagno di squadra?”
“Posso dire che è molto migliorato da quando ha iniziato”
Se non fosse piccola e biondissima potrebbe essere una frase di Cely o di Pamela, qualcosa tipo “può giocare, forse.”
C’è la sua mamma che sorride a sentir parlare questa piccola donna. Le chiediamo com’è la sua giornata, da quanto tempo pratica il futsal e cosa fa quando non gioca a futsal.
Nel suo raccontare sicuro ti guarda sempre negli occhi e sembra che cerchi le parole giuste.
All’improvviso arriva una frase: “I play on Friday Night“, per quelli che non hanno vissuto la passione per uno sport come il basket, il baseball o il football americano e non l’hanno fatto durante l’adolescenza queste semplici parole possono avere un significato diretto: “Gioco il venerdì sera”.
Per quelli come me, c’è un mondo dentro quelle parole.

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Mi sono voltato verso Federica quando Erin ha pronunciato quella frase e lei guardava verso di me. Friday Night non è solo un momento della settimana, è un rito sportivo e familiare, un momento di comunità, un insieme di emozioni indelebili nella vita di tantissimi adolescenti oltreoceano. La magia del Friday Night è difficile da spiegare se non siete mai rimasti appolaiati sugli spalti di uno stadio perduto nel mezzo del nulla oppure impegnato su di un campo illuminato a festa in un luogo dimenticato da qualsiasi divinità.

H. G. Bissinger nel sul libro Friday Night Lights: A Town, a Team e a Dream ha raccontato magnificamente questo rito sportivo che unisce intere comunità e rende quei momenti speciali e indelebili.
Erin plays on Friday Night.

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Non importa se da grande non farà la giocatice di futsal, se farà la pittrice, oppure avrà un negozio di biscotti o sarà una neurochirurgo famossisimo, qui e oggi Erin rappresenta la parte migliore di noi, quella che insegue un sogno ed ha la fortuna di avere una mamma che la lascia libera di sognare.
Vorrei potesse incontrare Araceli Gayardo, perché un sogno diventa meno impossibile se puoi condividerlo con qualcuno che un giorno ha intrapreso quel viaggio. Vorrei potesse parlare con Pamela Presto e Leticia Martin Cortes, perché bimbe come Erin hanno bisogno di modelli e una immagine alla quale associare un sogno, per renderlo un po’ più vero, anche se ha i piedi storti oppure è riservata ai limiti della timidezza.

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Arriva quasi la mezzanotte e i ragazzi colombiani ci raccontano di un sogno fatto di sacrifici e raccolte porta a porta, di comunità intere che si mobilitano per regalare ai loro figli un futuro migliore di quello di tanti contadini sulle alture della Colombia.
Quando Silvia si autoinvita nella loro città, qualcuno dal pubblico serissimo esclama: “Se vieni in Colombia, porta una valigia grande…perché non vorrai tornare indietro.”
C’è tutto l’orgoglio di un popolo che non vuole sentirsi prigioniero, di un paese che vuol raccontare che è meglio di quello che il mondo intorno percepisce.
Smontiamo e siamo stanchi, davvero.
Si spengono le luci ma non lo fanno le parole, non lo fanno gli occhi verdissimi dei bimbi che ci raccontano le loro emozioni, non si spegne il suono di lingue diverse ma di una sola passione.

 

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