Storie

Muschella – Argentina – 1936

muschella

La finale di Supercoppa ad Ariccia, la porchetta e le fraschette, peccato che sono a dieta e non è nemmeno il giorno in cui posso mangiare quello che voglio, ammesso che questo giorno esista davvero.
Ginger, Federica, la panda con lo sterzo consumato dai viaggi, il suono del telepass e l’indicazione ROMA su quel cartello verde grande che posso leggerlo anche senza occhiali.
Chiamo mia sorella e le chiedo un posto dove mangiare, lei gira la richiesta a Cicciobello e il navigatore fa il resto del lavoro.
I litigi al telefono, la gente che si ostina a infilarsi la lingua in bocca per controllarsi le tonsille e il pranzo che tarda ad arrivare.
When Saturday Comes.

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Bighelloniamo nella piazzetta mentre tutti si preparano per i 100 anni dell’azienda leader nel settore della porchetta, che anche solo a scriverlo mi mette allegria.
L’operaio con il culo a salvadanaio che litiga con il parroco che sembra aver mangiato il vecchio parroco oppure lo tiene prigioniero nella pancia, come Geppetto in quella della balena.
Questo format piace, ma anche no.
Il bar sfigato con i gelati congelati che sembra che a Tanana sembra faccia caldo. Le castagne che cadono in terra ma a casa del Generale [aka mio padre] sembra che cadano in ritardo per una qualche strana ragione, che poi non è proprio così e torna a casa sempre con un misero sacchetto quando su ci sono interi castagneti di famiglia.

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Olimpus contro Montesilvano è una di quelle partite emotivamente per me complicate.
Comunque vada qualcuno al quale voglio bene alla fine avrà gli occhi pieni di lacrime e l’espressione triste.
Il palazzetto al buio, le luci d’emergenza a fare da corona al campo.
I sorrisi e gli abbracci. Al buio devi avvicinarti per distinguere i visi, ci sono le voci tese che s’appiccicano al parquet nero.
Luci. Si va in scena.

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C’è una immagine che riflette perfettamente il mio personalissimo problema (avrei voluto scrivere cartellino come omaggio a Rino Tommasi) con questo incontro.
Filipa entra in scivolata su Benedetta, intervento pulito, irruento e con la gamba di richiamo mette a terra l’avversaria. Fallo, il sesto, punizione e tiro libero per la squadra romana.
Ero felice di vedere il numero 22 dell’Olimpus giocare finalmente per vincere qualcosa e farlo così bene, felice per l’intervento pulito di Filipa.
Difficile spiegare perché ci si affezioni a Benedetta. Parlare con lei è come andare a piedi nudi da casa mia alla spiaggia. Tra asfalto, brecciolino e pineta sai che qualcosa prima o poi ti taglierà i piedi ma lo fai perché prima o poi arrivi sulla sabbia e ne sarà valsa la pena.
Filipa è un pezzo di vita. Qualche settimana fa mio padre sentenziò: “se Filipa vuole la vado a prendere io e può stare qui anche quando non ci sei”. C’è talmente tanta soia nel frigo dei miei che ci potete alimentare una centrale elettrica a biofuel che illumini l’intera città di Los Angeles.
Perché, ho chiesto. “Così se viene Filipa può mangiare qualcosa.”

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C’è Leticia, c’è Cely e i vocali da segretaria e le interruzioni dell’autista mentre cerca di salutarmi.
Cely. Le cambia lo sguardo durante la partita. Gli occhi si serrano e l’espressione si fa serissima.
L’intelligenza calcistica non puoi impararla, è un dono. Guidare una squadra in campo è un talento assoluto, complesso e in possesso di pochi.
C’è Dayane che se la guardi solo giocare ti perdi una delle donne atlete più simpatiche che abbia mai conosciuto.
Si gira ed è DUE a ZERO.
S’appoggia al marcatore, sente il corpo e va a sinistra per liberare il destro. Sembra una cosa semplice a vederla, con quel fisico sembra una cosa impossibile, eppure è li, una minaccia costante. Butti la palla e lei qualcosa fa succedere.
Eva e Pinillo.
I libri in italiano, però quelli facili. La traversa che trema e quel tiro che usa sempre poco.
Il cervello del Montesilvano, quella che vuole capire, che studia, mai banale. Usa le parole con la stessa intelligenza con cui distribuisce il pallone. Si fa davvero fatica a capirla questa donnina spagnola.
Quando perde non se ne fa una ragione, se le chiedi come sta ti risponde “mi sparo”. È così, senza un compromesso, si sente in viaggio per una destinazione che conosce solo il suo cuore.

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La cena, la festa.
Il vino rosso e le imprecazioni, quelle creative però.
Gli smacchiatori, i fratelli che adorano le sorelle, i vegetariani che mangiano i pomodorini di guarnizione alle salsicce alla catalana.
La notte che si prende un pezzo di giorno, la bottiglia magnum di spumante in macchina.
Al volante, verso casa e nello specchietto c’è Ginger che tra le sue mille stranezze annovera anche il “fare i canestri*” lateralmente [*fare i canestri indica una espressione gergale in uso sulla costa pescarese riferita all’atto di appisolarsi all’improvviso].
L’autostrada è buia, l’autogrill vuoto e odio quando la velocità in salita a tavoletta non supera i 70 all’ora.

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Federica dorme di fianco, appallottolata sul sedile. Lo so che non è morta eppure per qualche minuto ho sempre timore che qualcuno le abbia sfilato il tronco cerebrale.
Lascio l’enorme bottiglia di spumante sul marciapiede, come ad infilare una bandiera in cima ad una montagna. Siamo tornati a casa.
Le cinque del mattino.
C’è un’unica frase che può provare a spiegare tutto questo.
“…il fatto che per te è così importante… se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio…”
Sono troppo stanco anche per dormire.
“Possiamo farcela?”
“Si.”

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