“Possiamo farcela?”
“Si”.
Con quella esse un po’ sibilata, in allungo, come fanno i bimbi.
Loro non mentono mai, non ne sono ancora capaci e allora finisce che gli credo e parto.
“Only hate the road when you’re missing home”
Inizia tutto con una foto dal balcone di casa dal quale si vede il mare, un gatto enorme bianco come la neve e gli incontri che si fanno per caso.
Terni.
Entriamo e siamo a casa, esattamente come se fossimo nella nostra casa. Diversi i colori, i sapori e gli odori. Ci siamo portati un pezzetto del nostro mare con noi per lasciarlo lì.
Prendi queste famiglie che s’allargano all’improvviso, Stefano e Francesca potrebbero essere Franco e Gianna.
Quel pezzo di famiglia che s’aggiunge e nemmeno t’accorgi che accade.
Il tempo riempie un album di foto, di quelli che s’usavano una volta, perché i ricordi se li puoi toccare ti sembrano più veri.
“Mia lo sai che sei bellissima?”
“Si. “
Vedete? I bimbi non hanno tempo per le bugie, la loro vita scorre troppo in fretta.
Quello che ti sembra diverso è semplicemente qualcosa che non conosci, basta fermarsi ad ascoltare e riempire il proprio silenzio, di storie.
“These people are not simply fans, they’re more like members of one extended family”
Lo spogliatoio, le maglie allineate e quella scritta che capeggia: “Terni è una città operaia, qui si vive di lavoro e sacrificio…”
Per un attimo sono ad Anfield, in piedi nella Kop e mi tornano in mente le parole del grande manager del Liverpool Billy Shankly: “Dovete avere rispetto per fans, spendono i loro soldi guadagnati facendo quello che devono per vedere voi che fate quello che volete.”
Non puoi dimenticarle quelle parole, nemmeno indossando la maglia, prendo l’etichetta tra le dita e la mostro a Federica.
“Più duri dell’acciaio”.
Esco, c’è Federico, indossa la sua camicia immacolata, se non ricordo male è l’allenatore della squadra di casa, mi suggeriscono che potrebbe anche fare il modello.
Impeccabile in quest’aria che diventa più spessa, come se il caldo fosse fuggito dagli altoforni e si fosse fermato lì un attimo di troppo.
Tempo di uscire sul terreno di gioco. Sentiamo il brusio dagli spalti che diventa canto, s’aggiungono i suoni dei tamburi.
“Somewhere behind the athlete you’ve become and the hours of practice and the coaches who have pushed you is a little girl who fell in love with the game and never looked back… play for her.”
Posso guardale negli occhi, mentre si preparano ad andare in scena, sul palcoscenico più importante per vincere uno scudetto, qualcosa che ti resterà per sempre, che nessuno potrà toglierti mai.
Mia Hamm sarebbe fiera di loro, conosco le loro storie e c’è quella luce negli occhi, quella della bambina che un giorno s’è innamorata di questo gioco e non si è più guardata indietro.
Giocate per lei.
Le osservo scaldarsi, questa volta nessuno guarda il campo delle avversarie e assolutamente nessuna delle protagoniste guarda la Coppa, sistemata in bella vista, lucente e non puoi far a meno di gettare uno sguardo.
C’è questa ragazza che palleggia, con quell’aria di chi è sola nel parchetto vicino casa e con nessuno intorno a guardala. Giada, vero? Quando s’accorge di me il pallone rimbalza lontano, ci prova ancora e ancora, ora che sa d’essere osservata.
Quando piomba in campo il canto della tifoseria, arriva come un’onda che non t’aspetti. Si fatica un po’ ad abituarsi al ritmo della mareggiata di voci.
“Play for the name on the front of the shirt, and they’ll remember the name on the back.”
Così Tony Adams viveva la sua vita da centrale difensivo e penso a Pamela che in mezzo al campo si pianta a difesa della sua porta. Non riesce a mollare nemmeno un centimetro.
Si batte come se quella fosse l’ultima partita, come se quegli scarpini ormai pesassero, così pieni di ricordi e di cicatrici, di guerre vinte e di battaglie perse.
Poi lo strappo improvviso.
La maglia numero 12 rossoverde prende palla e l’incrocia sul palo lontano, scatta veloce verso la bimba che vendeva dolci orgogliosa di aiutare la sua famiglia, la raggiunge e insieme saltano verso l’abbraccio che l’attende alla balaustra. Sono appoggiato al muro, un rumore sordo come se tutto il palazzetto tremasse sotto il peso della gioia di una città intera.
Ti liberi di ogni paura, inizi a crederci, puoi vincere l’hai appena dimostrato.
“When my body gets tired, my mind says “is where winners are made”
Tornano gli spettri, la maledizione di Gara 3, i ricordi di una stagione gettata al vento.
Uno scudetto perso così, quando si giocava da favoriti. Classe e talento si ribellano e attaccano a testa bassa.
Ferite nell’orgoglio ricacciano la paura indietro, un passaggio alla volta, un tiro alla volta. L’Olimpus gonfia la rete, pareggio.
No.
Il fischio finale, arriva qualche secondo prima. Resta solo il frastuono.
Confinato sulla linea del calcio d’angolo non riesco a scorgere il cronometro.
Una sofferenza nella sofferenza.
Finalmente possiamo alzarci dal nostro cantuccio. Una strage di zanzare, moschetti e chissà quale altra diavoleria volante. Federica e Giada, la passione per raccontare delle storie, le emozioni dentro ad uno scatto. L’illusione di fermare il tempo e lasciare che si ripeta per sempre, immutabile.
Abbiamo una nuova compagna di viaggio, questa ex pallavolista di Roma est che incontriamo troppo raramente.
Fischio.
Il pallone rotola in avanti e si riparte.
“When my mind gets tired, my heart says this is where champions are made”
Taty trova il gol del pareggio, c’è una nuova partita da guardare e raccontare, sembra cambiare qualcosa nell’inerzia della partita ma le ragazze della Ternana cercano di restare nella partita, di non farsi schiacciare e l’ex capitano del Burela, Maite, trova il nuovo vantaggio. Penso: “è finita”.
Sono in vantaggio e l’espulsione di Lucileia sembra aver cucito un pezzo di scudetto sulla maglia della squadra di casa.
Cinque contro quattro per due lunghissimi minuti, un gol della Ternana e per molte ragazze dell’Olimpus tornerà l’incubo di uno scudetto perso, ancora, in gara 3.
Non succede nulla.
Quando in campo si ristabilisce la parità numerica è proprio Dayane che sfiora il pareggio.
Qualcosa si rompe sulla panchina della Ternana.
La tensione rompe l’argine della ragione e troppe parole ruzzolano fuori.
Via la cravatta e via dal campo, espulsione.
Bastano 20 secondi e la rabbia agonistica accumulata in un confronto sopra le righe esplode sul campo.
“Quando la tua mente è stanca, il tuo cuore ti dirà che è qui che si diventa campioni.”
Dayane zittisce il palazzetto a lei ostile, quell’angolo bianco e blu esplode, ci crede. Ora è possibile.
C’è chi si volta per una indicazione verso uno spazio ormai vuoto.
Corre via ora il tempo.
Cely sbaglia un gol già fatto. Sbaglia ancora e si irrigidiscono i lineamenti del suo viso.
Non oggi, non adesso.
Arriva il terzo gol. Si libera d’un peso, corre e s’inginocchia.
“Forse è finita”, penso. Sono più cauto questa volta, c’è qualcosa di strano, qualcosa che non torna.
“Seven seconds away.”
Rigore.
“Come rigore…”
“Davvero?”
Sembrava finita, dagli spalti i tifosi ospiti scandivano gli ultimi attimi di questa partita, quando invece Renata si porta dal dischetto. Le ha guidate fino a qui, ha la possibilità di condurle oltre.
Sistema il pallone e tira, con il suo sinistro velenoso.
C’è un rumore sordo e poi tutto si capovolge e impazzisce.
Sara, quella che non ti fa perdere le partite, te ne fa vincere una, quella più importante.
Rimane tra i pali e si tuffa alla sua destra, trova il pallone e lo caccia fuori.
Scudetto.
Le lacrime e gli abbracci accomunano vincitori e vinti.
Leticia corre felice, come Giovanni in “Tre Uomini e una Gamba” nella scena della partita in spiaggia mi suggerisce Federica. Ci penso meglio e forse l’intera partita si può raccontare con quella sequenza.
Le lacrime di chi ha perso, proprio sulla sirena.
Com’è che dicono: “i rigori li sbaglia solo chi li tira…”, non ho mai capito come questa frase dovrebbe offrire sollievo.
Valentina sulla panchina che festeggia come una anziana al parco, c’è chi bacia tutti e anche gli arbitri e aggiunge un “sei bellissima” perché alla fine questo scudetto che sembrava maledetto è arrivato.
“Saluto i gufi”.
Ci sono gli applausi della tifoseria di casa alla sua squadra. I miracoli sportivi non accadono sempre altrimenti non sarebbero miracoli.
C’è Sofia che porta fortuna e temo le toccherà essere presente a tutte le prossime finali del suo papà.
Le emozioni si mischiano un po’ e s’impastano con le lacrime e gli abbracci.
C’è la nonnina fuori dallo stadio che saluta le giocatrici come se fossero le sue nipoti che teme di non rivedere più, poi scopri che in fondo è davvero la loro “nonna”. Lei è la mamma del mister.
La notte s’allunga fino a quasi l’alba. Perché un rigore ti può inseguire a lungo se non sei capace di scappare avanti.
Bere non ti aiuta a trovare le risposte ma certamente t’aiuta a dimenticare le domande e far sparire i dubbi.
Assisi ormai è troppo lontana.
L’alba è vicina.
Troviamo ospitalità e un letto, lampadine da cambiare e l’ostinazione a farlo nel cuore della notte. In piedi su una sedia e poi scopri che ci sono due lampade per casa e bastava collegarle.
Ciao Claudia, Pamela, Taina, Maria Fontana, Maite e le vostre compagne di squadra.
Ciao Leti, Cely, Dayane, Sara, Valentina che ho scoperto che ha una voce, Taty, Ana e tutte le vostre compagne d’avventura.
Ciao Stefano e Francesca, Mia e Stella. Il tuo papà ti leggerà spero questa frase: “Mia hai il nome della più grande giocatrice americana di calcio di sempre, forse la più forte al mondo, lo sai?”.
Ci lasciamo nel presente, sperando di trovarci in futuro.
Grazie per averci aperto uno spiraglio nel cuore.
Grazie per i ricordi.