Storie

Sono Sara e resto una malata di calcio

Sara
È facile fare bene in una partita, il difficile è riconfermarsi.
Sono Sara e resto una malata di calcio. 

Durante la settimana ci eravamo preparate bene, due allenamenti, il lunedì e il mercoledì, la preparazione era oramai finita, la squadra iniziava a prendere forma, ognuno prendeva il suo posto, i meccanismi iniziavano ad ingranare, come pezzi di un puzzle che si incastrano alla perfezione, perché dopotutto una squadra è questo, un puzzle, se manca un pezzo lo spettacolo non va in scena. Quando ti aspetti troppo però è la volta buona che rimani deluso. 

È proprio così. Vivi in funzione di un solo momento, quando quel momento passa poi cosa ti resta dentro? 

Ho aspettato con trepidazione che arrivasse quella sera, avevo trascorso una settimana densa di emozioni, volevo solo che quel venerdì e quel triangolare arrivassero in fretta. Volevo giocare. La prima partita non è mica uno scherzo. Non sai che aspettarti, non sai cosa dovrai fare, mille domande, mille dubbi, tanta voglia di dimostrare e tanta voglia di sbagliare. 

Nervosismo, agitazione. 

Ogni sera mentre tornavo con il treno dall’università, mi allungavo su sedile, mettevo le cuffie e la play list “da carica” sull’iPod: la musica mi ha sempre dato una spinta, in ogni occasione. Green Day, Muse, Queen, Fun, Vasco, Liga: volume al massimo, occhi chiusi, il cuore che rallentava dopo l’affanno per la corsa verso la stazione, il respiro tornava normale, finalmente tornavo al mio campetto. Arrivavo agli allenamenti sfinita, ogni sera, 8 ore di lezione alle spalle, un boccone al volo nel bar vicino, 3-4 caffè per restare sveglia ed ero pronta a dare tutto quello che mi restava su quel campo. Quella settimana aveva prosciugato tutte le mie energie. Avevo iniziato il terzo anno, giurisprudenza non è una facoltà semplice, restare concentrata tutto il giorno era praticamente impossibile, la testa vagava, si perdeva, poi tornava sul libro e sugli appunti, fantasticavo sulla partita, lo ammetto. 

sara

Mi immaginavo i fari accesi, l’aria fresca di ottobre, io che entravo nel campo con i miei scarpini nuovi, l’erba sintetica che strisciava sotto ai tacchetti, la gente intorno appoggiata alla rete, una entrata in campo in stile Champions, qualche bella azione, magari qualche urla di incitamento, il pubblico che applaudiva, un goal di tacco, una vittoria magari. 

Fantasticavo e mi perdevo tra le lezioni che scorrevano lente durante la giornata.
Mi rilassava entrare nella mia bolla, il calcio era il mio posto sicuro, non sentivo la pressione degli esami lì, non sentivo i professori che parlavano, non sentivo il brontolio dei ragazzi intorno a me. Una mia amica me lo diceva sempre, mi vedeva lì con il telefono in mano nei momenti di pausa, non esistevo più per nessuno, c’ero solo io con i miei mille pensieri che facevano a cazzotti nella testa.
Mi stavo innamorando di quel pallone, era una bella cotta.
Un colpo di fulmine, uno di quelli che ti fa venire le farfalle nello stomaco, che ti fa smettere di mangiare perché non hai fame, ti senti sazio d’amore, uno di quelli che non ti fa dormire la notte, uno di quelli che ti prende anima e corpo. 

Era una love story, la mia. 

Arriva venerdì, finalmente. La notte prima non ho chiuso occhio, mi ricordo addirittura che in un momento di dormiveglia calciavo le lenzuola pensando che fossero un pallone, sono rimasta anche delusa quando mi sono accorta che ero nel mio letto e non su un campo. 

Cose da matti, lo so. 

La mattina mi sono svegliata alle 6.30 come sempre, ho preparato la borsa con i libri e il blocco degli appunti, subito dopo ho preso fuori il borsone, dovevo prendere tutto quello che mi serviva per la partita, non avrei avuto tempo per ripassare a casa, finite le lezioni sarei corsa al campo. Scarpini nella parte inferiore del borsone, infradito per fare la doccia, accappatoio, cambio, elastico per i capelli, bagnoschiuma, shampoo… che manca?
I parastinchi, già! Non li avevo mai messi prima, erano nuovi fiammanti, li avevo comprati pochi giorni prima, bianchi e argento, scritta “Mercurial” nera stampata in bella vista, forse troppo grandi, ma belli da morire. Li metto dentro, nella parte destra del borsone, mettere le cose in ordine, ognuna al suo posto mi aiuta a rilassarmi e concentrarmi.
Mancava solo una cosa, la più importante. 

Il completo da gioco. 

La mia è una squadra piccola, non ci sono chissà quanti soldi, dovevo scegliere tra completini che erano già stati stampati, così pochi giorni prima della partita una mia compagna portò i completi che erano rimasi così potevo sceglierne uno. Ricordo che appena ne ho preso in mano uno sono  rimasta colpita da quanto era morbido e leggero il tessuto, scorreva tra le dita, come se fosse pronto a diventare una seconda pelle. Erano tutti neri, nuovi fiammanti, con delle rifiniture oro e bianche, numeri dietro grandi e bianchi, sponsor davanti in bella vista, pantaloncini con i bordi e cuciture color oro. Credo che sia il completo più bello che abbia mai indossato. Ero Superman con la S sul petto e il mantello rosso che svolazzava quando giocavo con quel completo. Era la mia armatura. Dovevo scegliere e ne vidi uno che poteva essere solo il mio, doveva essere il mio. 

27 sulle spalle. 

Non era il numero dei top player che tutti volevano, non c’era il 9 o il 10 stampato sulle spalle, c’era un numero molto più importante.

27.

Mio nonno era nato il 27 gennaio del 1938.

Era un bell’uomo, occhi verde acqua che diventavano quasi grigi quando il cielo era nuvoloso, capelli bianchi con qualche sfumatura grigia, carnagione scura che faceva risaltare ancora di più il suo sorriso perfetto. Era un tipo muscoloso, braccia scolpite, mani grandi e rovinate da una vita di lavoro nelle acciaierie. Anche se l’età si faceva sentire, aveva un fisico da far invidia a qualsiasi trentenne. Era il mio gigante buono, uno di quegli uomini di vecchio stampo, duri e severi, ma dolci e comprensivi quando serviva.
Lui amava lo sport, la prima volta che sono andata ad un allenamento di karate mi ha accompagnata lui, avevo 4 anni, mi portava in palestra con la sua Fiat Panda bianca, si sedeva due ore sul divanetto fuori e mi aspettava, ogni giorno, lui era lì; appena uscivo veniva da me, mi prendeva in braccio così non camminavo scalza, mi metteva le scarpe, mi riportava a casa.
14 anni della mia vita lì ho passati così, lui che mi accompagnava e aspettava, lì sul divanetto fuori.
Lui con me non c’è più, ma so che sarebbe stato il mio primo tifoso, il mio ultras del cuore. Non l’ho mai ammesso ma penso di aver lasciato il karate perché pensavo di fargli un torto, continuare senza aver lui al mio fianco non sarebbe stato lo stesso, era la nostra passione.
Volevo averlo accanto anche in questa avventura però. 

Il 27 sarebbe stato il mio numero.
Ammetto che quando la mattina ho preso il completino in mano ho anche pianto, ho visto quel numero e ho pensato a lui, a quanto sarebbe stato bello giocare con lui lì a guardarmi.
Ho preso il profumo che metteva sempre e ne ho spruzzato un po’ sul completo, quello era ed è il mio porta fortuna. Non avevo più tempo per pensare, ho messo tutto nel borsone e sono andata di corsa a prendere il treno.
La giornata è stata davvero pesante, due ore di diritto civile, due di diritto privato comparato, due ore di buco per mangiare qualcosa e studiare e in fine due ore di diritto penale. La penna scriveva sul foglio e io nemmeno sapevo che stavo scrivendo, mancavano sempre meno ore alla partita.
Alle 19.30 finiva l’ultima lezione, il torneo iniziava poco dopo, fischio di inizio alle 20.30.
Avevo trovato un passaggio per arrivare al campo, dovevo arrivare a Bastia e con il treno non potevo.
Ho messo tutti i libri dentro alla borsa, mi sono fermata alla macchinetta in fondo al corridoio, le luci erano quasi tutte spente, stavano uscendo le ultime persone dalle aule: tasto A2, caffè espresso, tolgo con i tasti tutto lo zucchero, lo prendo amaro come sempre. Scende il bicchiere, poi dentro l’astina di plastica, il caffè più lentamente del solito come se avesse capito che avevo fretta e volesse farmi un dispetto. Intanto che il caffè bollente si raffredda un po’, metto i soldi nella fessura, prendo una merendina nella macchinetta accanto ed esco di corsa dalla facoltà. 

Bevo il caffè mentre corro, arrivo alla macchina del nostro allenatore in seconda che mi stava aspettando e partiamo.
Ho divorato la merendina, mi serviva un po’ di energia, le gambe tremavano e il cuore batteva forte, di sicuro non era la fame che mi faceva quell’effetto.
Arrivati al campo vedo le altre, volti familiari, posso calmarmi ora. 

Scarico il borsone dal portabagagli e lo carico su una spalla, la borsa con gli appunti nell’altra mano, andiamo nello spogliatoio.
C’erano più campi, un manto sintetico perfetto, verde con delle strisce bianche ben definite: reti alte e delimitare i campi da gioco e alti fari che rendevano ogni centimetro del campo perfettamente visibile anche se era notte fonda.
Appoggio il borsone sulla panchina, appoggio la borsa che però cade, fogli di appunti sparsi ovunque, diciamo che l’ordine non è mai stato il mio forte. Raccolgo tutto di corsa e inizio a vestirmi.
Mentre prendo le cose per prepararmi mi guardo un po’ intorno: lo spogliatoio era nuovo, forse un po’ piccolo, eravamo 11 persone in 8 mq più o meno, tutte vicine, caldo da morire. Troppe persone in troppo poco spazio. 

Le pareti erano bianche, senza una macchia, tutta la struttura era nuova, panchine in legno e delle finestre piccole in alto aperte appena il necessario per far passare un po’ di aria; in una stanzetta vicino c’erano 6 docce disposte in circolo, pavimento con mattonelle scure e maniglie per regolare l’acqua in acciaio.
Metto i pantaloncini, la maglia, infilo i calzettoni, i parastinchi, le scarpe: cappio e doppio nodo per non farle slacciare. Mi ricordo che ridevano tutte, facevano battute, scherzavano ma io non ascoltavo, ero seduta in fondo allo spogliatoio, ero pronta, volevo solo entrare in campo. 

Usciamo e andiamo verso il campetto, ce ne erano 4 ma quello dove avremmo giocato noi era l’unico illuminato. 

sara

Le ragazze dell’altra squadra erano già pronte, si stavano scaldando, qualche saluto e iniziamo il riscaldamento. Ci aspettavano due partite quella sera.
Iniziamo a correre, in file da due facciamo i soliti esercizi di riscaldamento e poi qualche tiro per far scaldare i portieri.
Il mister ci richiama per dirci la formazione: io non c’ero, partivo dalla panchina. 

Bruciava, lo ammetto. 

Mi ero allenata più duramente di tante altre, perché non meritavo di giocare subito? 

Questa storia dell’ultima arrivata iniziava a pesarmi, non sono un tipo abituato a stare fermo a guardare, avrei davvero voluto sentire il mio nome tra quelli delle titolari. Mi siedo in fondo alla panchina, vicino a me il capitano, non è il massimo giocare mentre si prende l’antibiotico e allora il mister la fa sedere.

Iniziamo. 

Non è bello vedere la tua squadra che gioca dalla panchina, forse però quello era l’unico posto a cui potevo ambire al momento. Segniamo, bella azione partita dal laterale, tiro preciso che sbatte sul palo sinistro e pallone che entra. Poco dopo si ripete la stessa azione, sempre dalla fascia sinistra parte un gran tiro, il portiere si butta ma non riesce a fermare la sassata. 2-0 per noi.
Esultavo anche se sapevo che quel goal avrei voluto farlo io.
Poco prima della fine del primo tempo accorcia le distanze la squadra avversaria, pallone non trattenuto dal nostro centrale, recuperato dal loro attaccante, davanti al portiere tiro e goal. 

Fine primo tempo. 

Il mister viene verso di me: “Scaldati che entri.”
Io? Sul serio?
Inizio a correre, qualche esercizio, sono pronta.
“Sei calda?” “Prendo fuoco mister!” 

Mi fa entrare davanti, come pivot, insieme a me era entrato anche il capitano, lei dietro come centrale. 

Iniziamo.
Panico. 

Non sapevo cosa fare, non sapevo dove andare, sembrava che quella sera non riuscisse niente, inciampavo, cadevo, cercavo di tenere il pallone e scaricarlo poi sulle fasce, non riuscivo a fare altro. Forse era l’unica cosa da fare, non riuscivo a saltare il difensore, non riuscivo a tirare, giocavo solo spalle alla porta.
Il portiere mi rilancia il pallone, lo blocco in qualche modo, lo do subito alla mia destra, tiro, goal. Forse avevo fatto una cosa buona, iniziavo a prendere fiducia.
3-1. La prima partita era andata, avevamo vinto.
Ora mancava la seconda.
Iniziamo poco dopo, giusto il tempo di riprendere fiato. Riparto dalla panchina come nella prima partita.
Questa volta era più dura, l’altra squadra era quella che aveva organizzato il triangolare, erano brave, esperte, c’era anche una ragazza che aveva giocato in serie A, si vedeva, giocava alla grande, nessun gesto meccanico, tutto spontaneo.
Alla fine del primo tempo eravamo avanti 4-3.
Era il mio turno, stessa scena della prima partita, il mister viene da me e mi dice di entrare, ma questa volta mi fa “voglio che vai sulla fascia, te la senti?”

“Certo mister!”, spavalda come sono certo che me la sento.
L’espressione forse tradiva un po’ la mia sicurezza, penso che in quel momento era come se avessi un punto interrogativo stampato in faccia: cerco di trovare la concentrazione anche se avevo paura di fare un disastro. 

Va bene, proviamo. 

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Entro. Corro, corro e basta. Mi trovavo più a mio agio in quella posizione, potevo sentirmi più libera, muovermi più velocemente senza avere il centrale appiccicato.
Tante azioni confuse che non portano a niente, riusciamo in un attimo di lucidità a segnare il 5-3, era fatta, mancavano 5 minuti.
Mai dire mai, però.
5-5, avevamo preso due goal in pochi minuti, forse per distrazioni in difesa, avevo cercato di fare il possibile, rientravo, correvo, passavo i palloni, ho tirato anche in porta. Non era serata, non era affatto serata. 

Servivano i rigori per decidere chi avrebbe vinto.
Il mister vuole che tiri anche io.
Calcia il capitano prima di me, il portiere dell’altra squadra sembrava immenso, il pallone doveva entrare però, a tutti i costi.
Sbaglia, tira forte ma centrale, rigore parato senza difficoltà, il portiere era rimasto praticamente immobile al centro della porta e si era ritrovato il pallone tra le mani.
Presa sicura.
Noi non abbiamo la stessa fortuna perché le altre riescono a segnare: non era un tiro forte ma ben angolato, il nostro estremo difensore non era riuscito ad arrivarci. 

Tocca a me.
Prendo il pallone, lo metto sul dischetto, calcio.
Ho sentito un rumore sordo, avevo la vista annebbiata ma sapevo cosa era successo.

Avevo preso il palo.

Palo pieno.

Mi sono girata verso le altre, erano lì che sorridevano, ci sta, non si può sempre segnare, volevano confortarmi. Da quel momento non ho capito più niente, sono entrata nella mia bolla e mi sono seduta in mezzo al campo. I rigori andavano avanti ma io non vedevo niente. Mi chiamano le altre, mi danno uno scossone, avevamo perso, anche per colpa del mio rigore sbagliato. La prima vera sconfitta fa male, non riuscivo a capacitarmene. Dove avevo sbagliato, che era successo? 

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Sotto la doccia se non ci fosse stato lo spogliatoio pieno di gente avrei voluto mettermi a piangere. 

Mi insaponavo i capelli rivolta verso il muro, non volevo farmi vedere in quel modo, eravamo in 11 per 6 docce, mi sentivo mancare veramente l’aria, tra vapore, acqua bollente, risate e schizzi di sapone.

Quella doccia non finiva mai. 

Le altre erano dispiaciute ma di certo non perdevano occasione per continuare a sorridere e divertirsi, era stata comunque una bella serata, passata insieme, a fare quello che ci piaceva di più. Ho rifatto il mio borsone, ho messo tutto dentro, ho preso la borsa con i libri e sono uscita. Ero sfinita, muscoli a pezzi, fiato che mancava, mal di testa assurdo, caldo pazzesco. Mangiamo un panino e andiamo a casa. Torno in macchina con 3 mie compagne, su una Ford focus nera, mi metto a sedere sul posto di sinistra dietro, posso mettermi comoda: mettiamo Liga al massimo, iniziamo a cantare, a urlare, apro il finestrino metto la testa fuori, faccio la linguaccia alle altre che ci sorpassano con l’altra macchina, e poi mi metto lì, con i capelli bagnati al vento, a guardare le luci che scorrono intorno a me, la musica a fare da sottofondo ai pensieri. 

Sembrava quasi un film, invece era tutto vero. 

Non so perché ma ogni volta che penso a quel momento mi viene in mente “Heroes” di David Bowie: ripetevo in testa “We can be Heroes, just for one day”. Ero stata il mio eroe per una sera.
Mi sentivo forte, coraggiosa, pronta a tutto, avevo solo giocato a pallone, eppure mi sentivo sazia, piena di emozioni e con tanta voglia di guardare al futuro. Le risate, le canzoni cantate a squarciagola, era sparito il dolore ai muscoli, mi giro verso le altre, le guardo, sorrido: la scena è perfetta, è già tutto migliore. 

Ero felice, avevamo perso, ma ero felice, davvero. 

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