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Redshirt S01E11

Facciamo il tifo per te

Novembre.
Il cielo è carico di pioggia, le nuvole spinte dal vento si accorgono che l’inverno è alle porte, minacciose si affannano sopra le vostre teste.
C’è un pugno di ragazzi, impegnati a giocare con quel pallone da rugby, ma un po’ più piccolo.
Li guardi da lontano un po’ curioso, sulla spiaggia corrono e sudano.
Ti siedi e cerchi la penna. Forse c’è una storia da raccontare, una lettera da scrivere.
La lettera potrebbe iniziare così.
Ciao G. o qualunque sia il tuo nome. Sei infreddolito e continui a fissare il cielo come se l’arrivo della pioggia potesse liberarti da questa sofferenza. Pieghi il corpo a degli esercizi innaturali per il corpo di un giovane impegnato più alla ricerca dell’apparenza che alla sofferenza. Hai una pallina sotto il braccio, cerchi ti trattenerla per poi lasciarla andare quando fai volare la palla lontano.
Intorno a te, un gruppo di fratelli che non riconosci, eppure siete lì per lo stesso identico motivo.
V’importa, davvero.
Abbastanza da sfidare le occhiate di dodicenni con la sigaretta che s’improvvisano uomini ridicoli, almeno a questa parte di te non t’importa d’indossare una tshirt e sudare come un pazzo con questo tempo ballerino.
Inizi a vincere un po’ quando a passeggio nel centro della città, la tua ragazza si ferma e ti spiega che se lanci “una due” devi far arrivare la palla un attimo prima che il ricevitore si volti.
Lei non ha mai giocato un down in vita sua.
Vinci quando le dici “mi dispiace ma ho allenamento”, quando le chiedi di accompagnarti al parco a fare due lanci e la tranquillizzi, sorridendo furbo, che le sue unghie non si rovineranno.
Vinci quando lei corre ad abbracciarti in mezzo al campo e tu sei sporco di sudore e terra.
Hai vinto quando la tua famiglia si allarga un po’, per far posto a quei pazzi che si aggirano per il campo mentre tu traffichi con casco e spalliera. Hai vinto quando riesci a tagliare fuori tutti i tuoi problemi, a canalizzare la rabbia della tua vita in un’energia che ti fa sembrare un gigante.
Fast Foward.
Oggi eri seduto in un palazzetto, a pochi passi da casa tua, avresti voluto che qualcuno di quei ragazzi fosse lì con te a guardare quello stupendo spettacolo sportivo che è il Calcio a 5 Femminile.
Sei andato per veder giocare il numero 4 della squadra locale. Spagnola, come il “Niño” Torres (quello vero, quello con la maglia dell’Atletico Madrid o quella Rossa Liverpool, numero 9).
L’avresti riconosciuta anche senza nome sulle spalle, senza numero.
Come accade sempre per i campioni, ci vogliono dieci secondi netti e puoi indicarla.
Tenta un passaggio in profondità, la palla è recuperata e l’avversaria scatta in avanti. Lei la insegue per metà campo e la costringe in un angolo, il tiro fiacco è neutralizzato dal portiere. Lei si sposta lateralmente e senza esitare chiede di nuovo il pallone.
Fanno così i campioni, si “prendono la colpa”, si mettono in prima fila, conducono la squadra giocando il primo e l’ultimo pallone.
L’ultimo tiro.
Il tabellone luminoso scandisce due secondi al termine, lei chiede palla da calcio d’angolo e la palla sibila sotto la traversa, la mano del portiere avversario si allunga e devia fuori.
Sirena.
Il suo sorriso mentre abbraccia le compagne. Quattro a Quattro.
Due sigilli sul tabellino, le stigmate della campionessa stampate sulle dita del portiere e sul suo sorriso mentre esce dal campo. Ha tentato, fino alla fine.
Sara Iturriaga.
Devi venire a vederla giocare, si proprio tu che ora sei seduto sul letto e lo dividi con un cane troppo affettuoso. Si, anche tu. T’avevo detto che lui ti portava sfortuna, vieni a scoprire di che colore sono i campioni.

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