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Redshirt S01E06

I ricordi di questa calda domenica d’Ottobre li tieni sulla punta delle dita, hanno la forma di una scatola trasparente.
Ci sono le maglie macchiate di verde, i corpi troppo piccoli che rimbalzano come se fossero scagliati contro un muro di gomma.
C’è che importa, davvero, a ognuno di loro, non perché siano amici, ma in quell’ora di gioco, su quel campo, sono fratelli. I più minuti si battono come se pesassero ottanta chilogrammi, non mollano perché nessuno dei compagni lo fa. Si gioca con un dito rotto, facendo la spola con il bagno, correndo dentro e fuori dal campo e giocando in ruoli per i quali si è provato forse un paio di volte. Avete detto loro che era importante provare in ogni ruolo, ecco quando il campo chiede loro di farlo, loro entrano e domandano semplicemente: “dove devo giocare?”
Ci sono poi le frasi, quei pezzetti audio che si mescolano alle immagini.
“Fallo, ma lanciare adesso è uno spreco”, mandi dentro il numero e poi la palla vola, niente SAFETY a coprire il ragazzo che riceve il pallone e vola in endzone.
14-0.
Lungo l’altra linea laterale, c’è agitazione, qualcosa si scompone.
L’aveva detto il tuo capo allenatore, “quando iniziano ad urlare…”.
Questo è il momento nel quale prendete il controllo della partita e non la mollate più.
C’è quel ragazzo che si piega verso di te e sorride, come un giocatore consumato “non bloccano più, un colpo e si girano”. Lo stesso ragazzo che due settimane fa stentava a correre ora sembra un veterano. Lo guardi percorrere la sua traccia  e trattenersi dall’alzare le mani in anticipo per segnalare che è libero.
Un’altra voce.
“Devo andare al bagno, non ce la faccio”, poi rientra e porta in end-zone una ricezione.
Vai pure in bagno quando vuoi.
In difesa l’accento emiliano del capo allenatore detta i tempi, le coperture e quel nome “Mattia…”, ripetuto all’infinito risuona lungo tutta la linea laterale.
Ti tornano alla mente quei generali della guerra civile americana, mandano dispacci, scelgono strategie e poi inviano gli ordini ai luogotenenti sul campo.
“Vado un attimo a pisciare e ci penso…”
L’emozione si dissolve e la partita scorre via.
Non mollano un centimetro questi ragazzi, quando non hanno la fisicità necessaria, ci mettono il cuore, e ti chiedi “quanto cuore c’entra davvero in corpi così piccoli?”
“Corre a destra, copri…”, lui indica la direzione e loro lo seguono.
L’arbitro si avvicina al tuo QB, gli chiede di inginocchiarsi. I ragazzi si guardano perplessi, non hanno idea di come posizionarsi, di come si faccia. Urli di andare più sotto, l’arbitro li aiuta… chi pensava alla vigilia di dover preparare la “victory formation”, vi dovevano fare a pezzi e invece ecco di cosa sono fatti i sogni, di ragazzi impacciati sporchi di sudore e terra.
La partita che non t’immaginavi, la vittoria che non ti aspettavi, la volevi quello si… per loro quelli sugli spalti, quelli che sono restati fino alla fine.
C’erano quando eravamo quattro gatti sulla spiaggia, c’erano tutti i giorni al caldo afoso di un campetto dentro ad un pallone. C’erano quando non riuscivano a fare un solo altro passo, quando volevano mollare hanno diviso con voi, lo stesso campo.
Per loro questa vittoria.
Per le grida, per l’otite, per le voci rauche, per i sorrisi e le braccia al cielo.
Per cancellare quel “my”, per chi voleva esserci, per chi ci sarà.
Per gli abbracci e per le lacrime, per il sudore e per l’orgoglio di aver fatto qualcosa di prezioso da tenere per sempre al sicuro dentro allo scrigno dei nostri ricordi.

Foto di Patricia Pace

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