Football Americano Femminile

Diario di Viaggio – 1

Così.
Avrei tenuto un diario, per non dimenticare nulla e per ricordare il più a lungo possibile.
Le mie parole, le mie impressioni, tutto selvaggiamente privo di ogni velleità artistica. Un racconto personale e soggettivo, un viaggio attraverso le mie emozioni che talvolta sfiorano quelle di altri. Le parole fuori dal cuore e dalle vene direttamente sulla carta. Non siete davvero così forse, ma è così che vi disegno.

Sempre così, odio le partenze. Non il gesto di partire, mi distrugge l’attesa dell’ora prefissata. Accadeva anche quando adolescente era il tempo della partita, mi consumava il timore di non poter controllare quello che stava per accadere. Passavo la notte ad inventare mille ragioni per non andare, per il timore di fare schifo, di non essere all’altezza, di deludere tutti. Mi alzavo poi, pensando di avere ancora tempo nel viaggio in macchina fino al pullman, per trovare una buona ragione per non andare. Scendevo dalla macchina e salivo sull’autobus e mi sedevo al mio posto. Un automa, sono ancora abbastanza sicuro di ricordare le urla del mio cervello che ancora sul marciapiede mi intimava di scendere, di lasciar perdere.
Quando le ruote iniziavo a mordere la strada, il mio cervello raggiungeva cuore e muscoli e si metteva di nuovo a fantasticare, cercava l’espediente giusto per far fermare tutto e lasciarmi scendere.
Mi ritrovavo alla fine in campo, con l’idea che tutti mi fissassero, con quella linea bianca sotto i piedi.
Una volta varcati quei pochi centimetri di polvere, ecco il miracolo. La mia parte razionale rimaneva li, vicino alla panchina e io mi perdevo nell’incedere selvaggio ed erratico del tempo di gioco. Non pensavo, reagivo. Semplicemente.
Oggi è diverso, accompagno voi. Ho fatto i miei compiti, studiato i filmati, macinato chilometri per vedere le vostre avversarie dal vivo. Ho portato qualcosa da leggere e Federica ci ha fatto arrivare con largo anticipo all’appuntamento. Sistemiamo gli ultimi adesivi sui caschi, mi sistemo al mio posto rigorosamente tra i sedili sul fondo e via, pesco dalla sacca il mio ebook e riprendo la lettura di “The Genius”.
Mentre scorrono le pagine c’è una idea, che mi attraversa i pensieri.
Bill Walsh, il coach dei leggendari 49ers, l’ideatore di quella che ora tutti chiamano la West Coast Offense, prima di diventare l’uomo che è stato, ha attraversato periodi di estrema difficoltà, vissuto sulla propria pelle sconfitte durissime. Dove sono le durissime sconfitte delle Lobsters? Dove sono gli anni in purgatorio, le umiliazioni? Dov’è la consapevolezza di poter resistere ha tutto, perché si è già vissuto il peggio?
Hanno vinto, vero. Con la determinazione e l’orgoglio, con la forza di chi non ha nulla da perdere.
Continuare a vincere è qualcosa di diverso. Una dinastia vincente si costruisce su basi solide, in quel terreno amaro della sconfitta, si seminano i campioni.
Un continuo vociare, interrompe la mia lettura. Risate e quell’atmosfera elettrica che percepisci tra gli spigoli dei caratteri. Arriviamo a Roma e all’improvviso il volume delle voci s’attenua, fino quasi a spegnersi.
San Paolo Fuori le Mura, i suoi capitelli bianchi e quell’aria maestosa di chi è li da sempre. Uno di quegli edifici sui quali si sono posati i granelli dell’eternità.
Ho fame, inizio a mangiare la mia insalata di riso, abbondantemente condita. Zero antidolorifici in corpo, non riesco nemmeno a sollevare la forchetta, oggi non conta, non davanti a loro, nessuna debolezza.
Mangio a fatica, scopro che inaspettatamente lo stomaco si è chiuso. Nonostante l’emoglobina a zero, nonostante il fisico stia cedendo un centimetro alla volta.
Arriviamo al campo.
Gameplan. Il lavoro è servito, pianificare e preparare la partita è tutto quello che posso fare ora, aiutare a vedere l’incontro che ci aspetta da un punto di vista diverso.
Bambi ha preso in mano questo squadra, con i suoi caratteri forti, le sue anime bollenti e la sua voglia incrollabili di essere meglio di così, di essere la migliore. Chi non vorrebbe allenare una squadra così?, io no.
Non sopporterei il gracchiare dei corvi sugli spalti, non a questo livello almeno, non quando gratuitamente investo il mio entusiasmo ed il mio tempo per il sogno di qualcun’altro.
L’emozione è la stessa di allora, vorrei scomparire come allora tra i fili d’erba. La corsa fino agli spogliatoi per recuperare gli schemi offensivi delle Marines, con il peso che mi ritrovo, mi ha quasi ucciso. Mi trascino con la forza dei nervi.
Le avversarie delle Lobsters si schierano come avevo previsto, dai sono stato bravo… eppure non riusciamo a fermarle. La partita è convulsa, giochiamo come l’anno scorso. Manca qualcosa, mi accorgo che in campo ci sono tante ragazze nuove, pagheremo l’inesperienza. Un prezzo carissimo, che ci costa la partita.
Le energie nervose dilapidate in un precampionato con troppe parole velenose e poco football.
Le istantanee della mia partita le raccolgo quì, in rigoroso ordine sparso.
Enrica.
Il tackle migliore, stava dando il cento per cento, le ho dovuto chiedere il centodieci per cento, in quel momento il suo meglio non bastava. Lei in campo dolorante, lacrime e sudore. L’aiuto ad uscire del campo e lei che si preoccupa della mia spalla in frantumi e non del suo infortunio. Non lo sentivo il dolore, come avrei potuto…in quel momento non c’era un io e te, c’era un noi.
Federica.
Lo snap e quell’attimo di esitazione, quando il varco sembrava non aprirsi e poi quella corsa lunga, in progressione fermata ad un respiro dal touchdown. Un lunghissimo fotogramma, senza audio, senza prender fiato, senza tempo. “Grandissima Chupachups” e l’urlo delle tue compagne che mi ha riportato alla partita e il mio primo pensiero è stato “potevi rientrare con un roll”. Ti voglio vedere vincere più di quello che voglio vivere…scusami.
Natascia.
TE-Drag.
L’abbiamo provata così tante volte. Sei uscita dalla protezione e sotto pressione ha scaricato nello spazio, fidandoti delle mie parole e della tua compagna. “Tu mandala nello spazio…ci arriverà lei”.
Tu a terra, dopo aver lasciato andare la palla nell’ultimo istante disponibile prima di subire il colpo, come sanno fare solo i quarterback veri. Spettacolo. In ginocchio sulla sideline, perché quella era assoluta poesia sportiva.
I tuoi occhi, il tuo inchino. Sognavamo che accadesse, in quel parco polveroso, al mare o in un campetto di periferia. “Non succede…ma se succede”…è successo. La felicità in quegli occhi mi fa sentire in debito, con te e con la vita. L’hai fatto, quando nessuno credeva tu fossi capace e nessuno, nessuno può togliertelo.
Maria Vittoria.
Mi volto ed è di fianco a me sulla linea laterale, lo sguardo al campo, le lacrime che scorrono silenziose. Eppure il rumore che sento e assordante. “Non tu…”, credo di aver detto con un filo di voce. Non la combattente della pampa.
Karen.
“Dimmi che devo fare…dimmi come ne posso uscire”.
Avresti voluto giocare ovunque, pur di dare una mano, pur di riuscire a vincere.
Se potessi ti clonerei schierandoti così in più ruoli possibili. Ammiro la dedizione, la voglia di vincere, la passione. Meno il carattere spigoloso, se fosse perfetta però non sarebbe “valida”.
Questo è uno sport dove si vince di squadra, dove gli atleti migliori se non innalzano al loro livello le compagne di squadra, non saranno mai dei veri campioni.
Non siete la squadra dello scorso anno, non nella mentalità, non nell’organico, non nel gioco. Potete esserlo nel cuore, di quello ve ne servirà tanto.
Ti sei dimenticata di non “essere capace a ricevere” e sei volata via in una lunghissima drag fino a prendere il pallone. Due sogni realizzati con una sola traiettoria di volo. Grazie.
Luisa.
“Non mi far giocare Free Safety…” Mi sono sorpreso per qualche secondo poi ho capito, non volevi sbagliare non volevi mettere in difficoltà le tue compagne. Se solo sapessi correre davvero avremmo in squadra il miglior running back della lega femminile, invece abbiamo soltanto te. Hai la pessima abitudine di sorprendermi. Va bene così, per ora.
Marinella.
La tua prima partita in assoluto ed io che ti trattavo come una veterana. Colpa del tuo talento innato, colpa del tuo entusiasmo e della tua foga e soprattutto colpa mia che volevo giocassi una partita da ricordare per sempre. La ferita sul mento, il ghiaccio ed il dolore, hai lasciato tutto sul campo. Lascia lì anche il rammarico e la delusione per la sconfitta, quelli sono un bagaglio inutile che appesantisce il cuore.
Daniela e i suoi silenzi, Sabrina ed i conati di vomito di chi ha cercato di andare oltre i limiti del proprio corpo. I placcaggi di Georgina, che si erge sovrana sulla linea avversaria perfino nella sconfitta.
Michela.
Giorgia e il suo sgambettare sulla linea, cercando di capire, di apprendere di memorizzare.
Per voi ero li, senza i nostri sacrifici, nulla di questo avrebbe senso.
Grazie anche alle vostre avversarie, senza qualcuno da battere nessuna storia potrebbe essere raccontata.
Il prato è più silenzioso ora.
Fa spazio a nuovi atleti, per una nuova battaglia.
Il tempo è finito, non siamo riusciti a vincere.
Più dolorose sono le urla dallo spogliatoio che fuma di vapore e rabbia. Le dita puntate, le parole gettate in faccia a caldo.
Per i miei fallimenti ho trovato sempre solo un responsabile, me stesso.
Quando ho vinto, l’ho fatto sempre insieme agli altri.
Ripartiamo, il dolore fisico prende il sopravvento. Il tempo finalmente rallenta, i miei appunti crescono e la notte avanza.
Posso concedermi il dolore alla spalla, ho la mano bloccata, qualche appunto vola sul mio taccuino, per non dimenticare voi, le vostre emozioni ed i vostri sogni, nemmeno per un istante.
Mi trascino fino al letto. Crollo in un buio senza sogni.
Il passato è storia.
I campioni imparano a convivere con il loro passato.

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