Quando ho messo piede per la prima volta nel campo da football, non sapevo che la mia vita stava per essere stravolta, sconvolta per la seconda volta.
Ero appena tornata in Italia dopo una lunga esperienza lavorativa in Galizia, Spagna. Un luogo mistico, fermo a metà strada tra il gozzovigliare nelle notti e la spiritualità più intima. Lasciare quella terra, quell’oceano d’umanità, quei sapori, quella porzione di mondo straniero, diventato intimo al punto di scolpirsi nel mio cuore, é stata una scelta, infinitamente e inevitabilmente dolorosa.
Una volta in patria, in balia dei più devastanti mal d’Africa mista a quella che i brasiliani con la loro stupenda lingua chiamano “saudade”, ho pensato di riempire il tempo con lo sport.
Il football è entrato così, nella mia vita, con una puntualità quasi svizzera.
Era un ottobre all’apparenza uguale agli altri, le Lobsters sul campo erano in poche, cinque o sei.
Donne di carattere, forte abbastanza da spuntare tra l’odore forte dell’acrilico dell’abbigliamento sportivo e il dolore lancinante dell’acido lattico che ti lacera il morale dei primi allenamenti
Puntuali emergevano, anche i miei difetti…tutti.
Quella corsa sulle punte tutta in progressione, eredità di un passato da ginnasta, di un passato vecchio un milione di anni. Tutti quei movimenti nuovi e strani, inusuali. Quel petto troppo in fuori che mi impediva di stare bassa. Ferma sulla linea laterale, perplessa con quel pensiero fisso in testa : “Maledizione. È più difficile correre con i tacchetti che restare attaccate alle parallele!”
Forse perché sulle parallele ci ero cresciuta, era la casa conosciuta, il posto sicuro. Il sintetico del campo dei Gesuiti, invece era una nuova porzione di mondo straniero, una nuova e tutta mia Galizia e proprio come quella regione misteriosa, al football ho lasciato il cuore.
#sullepunte – 2
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