… in questo periodo.
Mentre c’è chi parla di finire la stagione, di formule magiche per soluzioni sportive, si parla addosso in una esplosione gloriosa di supercazzole da far impallidire il mai abbastanza compianto Mario Monicelli.
L’autore tra i tanti successi di Amici Miei e il Marchese del Grillo, morto suicida dieci anni fa a novantacinque anni. Sconfitto da qualcosa di più infido del suo cancro alla prostata.
Io mi chiedo se anche a lui avevano detto: “Andrà tutto bene”.
Sono seduto in terra, le spalle al termosifone spento e sotto alla finestra che da sul mare, c’è il sole ma non scalda, c’è il vento ma non lo sento, c’è l’odore del mare ma è spiaccicato sul vetro.
Alexandra, vieni a sederti qui accanto.
I capelli lunghi, l’elastico bianco a tenere i capelli, i suoi silenzi e gli occhi che gridano forte. Distolgo lo sguardo e fisso il gatto seduto in mezzo alla porta, piega la testa e s’avvicina per strofinarsi alle gambe.
Le parole tracimano fuori.
Da terra si vede tutto meglio, si sente il contatto con la realtà, quella piena di paure, di timori e disperazione.
Questo è un momento epocale, come quando il primo proiettile colpì John Fitzgerald Kennedy a Dallas il 22 Novembre 1963. Tutti negli Stati Uniti avrebbero ricordato dov’erano quel giorno. Un episodio che si scolpì nell’immaginario collettivo di una generazione tanto da diventare un modo di dire, “Kennedy Moment”. La nostra generazione ha avuto 11 Settembre, il 9/11 e tutti ricordiamo dov’eravamo mentre crollava la torre nord del World Trade Center.
Ero al telefono con Piera che voleva uscire a sfoggiare la sua acconciatura stile Angelina Jolie in “Fuori in 60 secondi”.
La tv accesa su Espn, la voce annuncia “Dražen Petrović è morto”. Era il 7 Giugno 1993 in quella che da poco era tornata ad essere una sola Germania, su quell’autostrada bagnata piena di Trambant sotto un cielo scuro e carico di nuvole come riesce ad essere l’estate tedesca, un incidente ha cancellato uno dei talenti più cristallini del basket.
Sono rimasto a fissare il giardino verde e grigio per gran parte di quel pomeriggio. Ero spaventato senza capire il perché.
Ricorderemo tutti anche questo momento di disperazione che si prende la nostra libertà e che sembra diventare padrone del nostro destino.
Abbiamo paura ma non possiamo dirlo. Paura di perdere quello che siamo stati per gran parte della nostra vita.
Quello che facciamo ci definisce, inevitabilmente. Accade con maggiore forza tra sportivi agonisti. All’interno della ristretta cerchia dei professionisti è ancora un tabù parlare di depressione, perché: “cosa hanno da preoccuparsi questi che guadagnano milioni”.
Ci sono giocatori di grande talento, fragili emotivamente, forse è il loro stesso immenso talento a renderli tali. Non hanno un filtro a proteggerli e vivono le emozioni senza riuscire mai a dribblarle, non come accade in campo con gli avversari.
Sono meravigliosi anche per questo.
Li dovremmo adorare perché sono imperfetti, perché sono deboli esattamente come noi.
Eppure imponiamo loro la normalità di uno sportivo alla costante ricerca del successo, forse proprio quella è una NON normalità.
Chiediamo agli sportivi di nascondere questo disagio, di non parlare di quella sofferenza, di riporla in un angolo nascosto, nel quale però cresce e finisce con il mangiarsi il futuro.
Accade che lentamente, inesorabilmente, lo spazio intorno diventi come catrame liquido, appiccicoso, copra tutto fino a distorcere l’idea stessa di normalità.
La pressione dell’insuccesso acuisce un disagio che non siamo preparati ad accettare, a considerare una condizione normale di un dualismo di possibili risultati.
Nascondersi.
Ci hanno inculcato che l’unica maniera per venire a patti con la nostra vita è nascondere, tenere duro e tirare dritto, anche in momenti come questo. Dobbiamo essere forti, aggrapparsi a certezze che si sgretolano.
Andrà tutto bene, ci ripetono, anche se dentro di noi in questo momento non c’è niente che va bene.
Cerchiamo di essere affidabili, professionali e perfino accennare un sorriso, scherziamo anche.
Alexandra è il giocatore con il maggior talento naturale che mi sia mai capitato di vedere.
La guardo giocare, il suo è uno spettacolo come quello a cui assisti all’improvviso quando qualcuno suona il pianoforte in una stazione dei treni, quando qualcuno disegna i tuoi sogni, quel talento che sfugge alla serializzazione.
Mi chiedo perché non riesce ad sempre come dovrebbe essere.
Deve davvero essere come mi aspetto che sia, lo vuole davvero?
Se la risposta a quel talento fosse la sua fragilità, la sua labilità emotiva.
Se in quella naturale esplosione di talento lei non riconoscesse un valore perché è la sua normalità, da sempre.
Se la risposta alla pressione che le viene imposta la distruggesse.
Tanti “se” Alexandra, vero?
Prendi questa birra, John Fante scriveva che “è sempre meglio morire di bevute che morire di sete”.
Disegno un cerchio intorno ai nostri piedi, questa è la nostra sacca di resistenza, non contano le nostre debolezze, non conta cosa c’è fuori da qui, non sei costretta alla trasparenza finta dell’epoca dell’immagine, non devi apparire, sei libera di essere qui, come vuoi.
I capelli lunghi, la coda che scende lungo la schiena, la testa leggermente piegata in avanti, quasi ferma sulle ginocchia come se guardassi lontano.
C’è chi è felice per quel gol, per quel trofeo, non è felice senza il successo personale.
Ci sei tu.
Se il tuo successo forse la felicità.
Ricordo in quel momento in cui eri felice di essere felice.
Il campo ti sorrideva ed era felice con te, riuscivate ad essere felici insieme.
Non andrà tutto bene ma possiamo stringerci qui e aspettare che la tempesta passi, senza farci domande se non ci sentiamo liberi di raccontarci.
Non vorrei che nessuno camminasse anche solo per un istante tra i pensieri di chi sta male ma ci dice che è solo stanco, quel abisso non va scrutato se non ci si vuole trasformare nell’abisso.
Vorrei aiutarvi a comprendere che bisogna ascoltare senza parlare, osservare senza giudicare, per aiutarli a guadagnare un giorno, ancora uno.
Alexandra, se fosse per me ti porterei qui, a guardare il verde dei pini e il blu del cielo.
«So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.»
Ho trovato questi versi di Alejandra Pizarnik, forse parlano di me, di noi, tutti noi.
Te li regalo.
Mentre attendo di riabbracciarti, tu non dimenticare che sei isolata ma non sei sola.