Storie

La città d’acciaio

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In viaggio per una promessa, in viaggio per curiosità, semplicemente a veder scorrere i chilometri tutti intorno.
“Qui ci siamo fermati con la squadra, quando siamo venuti a Terni la prima volta”, siamo sulla strada giusta. Non è che prende troppo il navigatore in mezzo a queste montagne, quindi m’affido ai ricordi di altre trasferte.
“Già ma io non c’ero, però ricordo che mi hai mandato la foto di un gatto bellissimo”. A ricordare l’ultima volta che lei non ha fatto seguire l’aggettivo superlativo “bellissimo” alla parola gatto, faccio davvero fatica.
Non c’è possibilità di confonderla con una cittadina diversa, incastrata com’è tra le montagne e la sua acciaieria. L’insegna “Acciai Speciali Terni” non puoi non vederla, i capannoni enormi d’un grigio strano ti coprono la visuale intorno. C’è una fila di luci spente lungo la recinzione esterna, mi ricordano le illuminazioni delle caserme che sembrano penzolare stanche e trascurate.
Settimana difficile questa, fatta di molti silenzi e di parole trascinate fuori a fatica.
Penso a chi ha trascorso una vita in mezzo agli altoforni a timbrare un cartellino che sia giorno o notte, tutto l’anno. Le macchine parcheggiate e le vite di questi operai, le loro famiglie, i sogni e le paure.

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“Ci hanno invitato, andiamo a trovarle. Non eri curioso di vedere la tifoseria di casa nel loro palazzetto?”. Abbiamo un indirizzo e un luogo d’incontro. Da qualche giorno la parola “vedere” mi crea disagio. Ero preoccupato per la mia reazione e invece ho scrollato le spalle e il giorno dopo, s’è alzato il sole dal mare. Il mondo non era imploso. Quello che veramente mi fa incazzare e che non posso vincere, posso solo combattere e restare in campo. I pensieri si legano insieme ai ricordi e pronuncio ad alta voce: “Survive and Advance”, Jim Valvano e North Carolina State, 1983.
“Ci sono tre cose che dovremmo fare tutti i giorni: la prima è ridere, dovremmo ridere ogni giorno. La numero due è pensare. Dovremmo passare almeno un momento della giornata pensando. E la numero tre, dovremmo avere ogni giorno emozioni che ci spingano a piangere, per la felicità e la gioia. Pensateci, se ridiamo, pensiamo, e piangiamo, quella è una giornata piena, una gran giornata. Fatelo sette volte a settimana, e avrete qualcosa di speciale. Non mollare, non mollare mai.”
Lei sorride, complice di quei sogni a occhi aperti che scappano via e non li riprendi più, puoi provare a condividerli però, se non ti fai spaventare dalle miserie della vita.
C’è un sacco di gente che corre, senza sapere dove andare, no, scherzavo.
Una corsa podistica in mezzo a Terni a cavallo del fiume con un ponte che balla al ritmo della gara.
Futuro immaginato e disegnato, quello a cui si pensa tra un allenamento e l’altro. Fatto di scarpini, parquet nero e panchine, il futuro a cui devi pensare ora per essere pronta domani.
Indossare i colori della squadra a spasso per il centro non è come nelle altre città di futsal, ti fermano e ti ringraziano, la senti la responsabilità d’occupare un pensiero nella giornata di tante persone.

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Le penne in bianco tristissime e un vicolo della città vecchia, la corsa perché hai dimenticato le chiavi della macchina e un recupero che ti fa davvero sembrare veloce.
Il libro del Piccolo Principe per imparare l’italiano e una vecchia playstation di quelle che puoi trovare solo in mano a vecchi collezionisti.
Il profumo degli ammorbidenti, il dubbio di Maria Fontana sul risciacquo della lavatrice e le giocatrici di futsal che profumano come un negozio di detersivi.
Arriviamo al palazzetto due ore e mezzo prima, come sempre.
Entrando, tutto ti ricorda la vocazione di questa città, le lamiere ondulate di metallo e plastica sul tetto, i finestroni industriali quadrati, il gommato consumato dalla passione e rattoppato come si fa con il cuore.

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Penso a Manchester e a Pittsburg, al City e agli Steelers, che poi giocano anche qui.
“Quel piedistallo li è per il pallone? Si. Come in Serie A, come quando sei davanti a milioni di italiani”.
Dettagli, importanti, a fare la differenza.
Usciamo per un caffè e questo bar è uguale a mille altri piazzati davanti all’ingresso d’un “teatro dei sogni”.
Si parla della squadra, degli avversari e dei proprio giocatori, di “questo può essere l’anno buono” e “dobbiamo restare con i piedi per terra”. Potrei essere davanti alla Nord di quello Stadio Adriatico che strizza l’occhio al mare se non fosse per i colori così diversi.
Se l’atmosfera è questa, allora per me: “un Lemonissimo grazie”, con il dito alzato come fanno i bimbi che si vogliono far notare sotto ad un bancone troppo alto.
Le tradizioni, i riti si trascinano dentro alle generazioni e passano dai nonni ai nipoti.
Il mio nonno, il suo bastone e i racconti sempre uguali della “Strapaesana” nella polvere del Rampigna, così vicino al fiume che ti potevi bagnare i piedi. Il suo “non ce la faccio a salire i gradoni” e il mio laconico “Ti aiuto io, appoggiati al braccio”.
La foto in bianco e nero di noi due sugli spalti scattata dal campo e tu che sorridevi come fanno i bimbi e non ricordo adesso nemmeno bene il perché.
S’illumina lo schermo del mio smartphone e torno qui, in mezzo alle sciarpe rossoverdi.
“Lo facciamo un video del mio nonno che racconta i suoi aneddoti sul calcio?”.
Riesco a digitare solo un: “Certo”.
Avrei voluto scrivere: “E tu come sai che pensavo ai nonni, al mio nonno…”
Si riempie il palazzetto di rossoverde, maglie e sciarpe.
Preparano la coreografia.
Si sistema vicino a me un anziano, che vuol parlare di calcio, di borghetti e lupini. Sembra un viaggio nel tempo e invece è tutto vero. Vorrei girare qualche video ma sono circondato e temo di rischiare la morte se alzandomi dovessi ostruire la vista del campo.

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Si alza il suono degli spalti, quel tremolio di cemento che vibra e di cori.
Quel fragore rende tutto diverso quello che accade sul campo, diventa vero.
Vero perché a qualcuno importa, davvero e non è un tuo parente.
L’ultima sigaretta del mister in trasferta qualche secondo prima del calcio d’inizio, come durante i rigori in Final Eight, un rito o una necessità, dovrò chiedere a lui un giorno.
Al primo gol esplode il lato occupato dai tifosi di casa, che guardano la partita in piedi e corrono verso la balaustra.
Meriterebbero un palazzetto a misura della loro passione.

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Finisco a pensare che un po’ mi dispiace per la squadra ospite, che s’affanna sul campo e ha un intero palazzetto contro. Giocare in trasferta significa anche questo.
Penso al palazzetto di Caserta, alla Juventus al Basket e ai posti VIP. Non Very Important Person, ma Vedo in Piedi. Perché alla passione non si comanda, s’obbedisce con un sorriso felice.
Questa è una di quelle partite che ti passa negli occhi e non si ferma lì, s’attacca ai ricordi a quelli che vuoi condividere con gli altri.
L’espulsione e il mister che uscendo saluta i tifosi avversari, perché alla fine tutto questo è parte di un grande gioco delle parti che se rimane confinato al terreno di gioco è un contributo all’epica dello sport, come la corsa di Carletto Mazzone, ma con più ironia.
Va via in contropiede anche se l’avversaria prova a commettere un fallo, velocissima e già nella metà campo opposta. Fischio, l’arbitro interrompe il gioco.
Ora non ricordo di aver letto quelle espressioni nel Piccolo Principe e sorrido perché insomma i fondamentali della lingua italiana per conversare con l’arbitro ci sono.
Il portiere di movimento è un arte, quasi sciamanica, un pacchetto di giocatrici selezionato a giocarlo perché non puoi improvvisare e se lo fai, paghi il conto, subito.
Pareggiano la partita e pensi sia finita.
Due secondi sono un battito di ciglia oppure un’eternità, dipende dal tuo sinistro. Il suo canta e accarezza il pallone e poi all’improvviso si porta la palla sul destro. Penso: “lo usa al massimo per uscire dalla doccia” e invece trova uno spazio dove nessuno pensava ci fosse.
5-4.

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Penso al portiere bianco e rosso, al suo esordio da titolare proprio oggi, davanti a questo pubblico contro queste avversarie. Si merita un abbraccio per il coraggio, quello è un attributo che non puoi allenare.
A proposito di portieri. Nell’intervallo le ragazzine della squadra di casa giocavano contro i maschietti di una squadra locale. Numero 4, tu che eri lì a difendere i pali della tua squadra, a guidare la difesa e a fermare tutti i tiri degli avversari, sei brava. Sembri quasi vera. Ci vediamo in Elite tra qualche anno.
Saluti e portiere che si chiudono, la voce del navigatore e la strada da percorre.
Usciamo dalla città che la notte s’è presa i colori.

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Incrociamo di nuovo quei lampioni, ora sono gialli e formano tanti coni riflessi sui muri e sui caseggiati.
Scivoliamo verso casa.
Ci rivedremo presto e questa volta mi infilo nel mezzo della bolgia.
In piedi, in mezzo a loro.
Grazie per i ricordi ragazze.

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