Futsal

Domani smetto


LA BUGIA DELL’ULTIMA STAGIONE OVVERO “E ANCHE OGGI ABBANDONO IL CALCIO DOMANI”


Non bevo e non fumo, ad eccezione di qualche rara occasione goliardica che si consuma per lo più in serate estive. Eppure, lo confesso, mi è capitato più di una volta di pensare che per la mia salute fisica e mentale sarebbe stato meno dannoso avere uno di questi comunissimi vizi, piuttosto che quella patologia ossessivo-compulsiva chiamata “pallone”.

Il mio vizio purtroppo non ha la rassicurante forma di un pacchetto di Marlboro Gold da 20 o di una bottiglia di Montepulciano d’Abruzzo (meglio se Zaccagnini !!pubblicità occulta!!), bensì quella molto più elementare, oserei dire primitiva, di una sfera che rotola. E insieme a quella sfera rotolo pure io da circa 16 anni, sempre più velocemente, con la foga di una palla di neve che aumenta il suo volume man mano che precipita, travolgendo tutto ciò che incontra nel corso della sua irrefrenabile discesa. Sì, sono una palla di neve…

[Piccola parentesi: la metafora di cui sopra si addice all’imminente periodo natalizio, con il suo seguito di ansie da decorazioni precoci apposte con un anticipo di circa due mesi: nemmeno il tempo di smontare gli ombrelloni che ovunque vedi spuntare alberelli sintetici infiammabili e babbi natale impregnati di smog e piogge acide che si arrampicano impavidi sui balconi (la palla di neve era solo una scusa per introdurre la mia invettiva annuale contro il Natale: insomma, tanti auguri)]

…comunque. Sono una viziosa. Una viziosa del pallone. E come ogni vizioso che si rispetti, anche a me capita di ripetere a intervalli regolari il mantra del “domani smetto”. Zeno Cosini, il protagonista de La Coscienza di Zeno di Italo Svevo, uomo inetto con il vizio del fumo, non fa che ripetere a sé stesso ossessivamente la promessa di fumare l’ultima sigaretta prima di smettere in modo definitivo. Ma l’ultima sigaretta non è mai l’ultima, è soltanto la prima di numerose altre sigarette. Allo stesso modo, ogni anno, mi ritrovo a ripetere a me stessa che si tratta dell’ultimo anno “appresso” al pallone. Ma l’ultimo anno non è mai l’ultimo. È solo il primo di numerose altre stagioni.

È lo stesso meccanismo diabolico esemplificato dalla frase che spesso saltella tra i social: “e anche oggi inizio la dieta domani”.

Non so se esista un’associazione di auto-aiuto per calciatrici anonime afflitte dalla sindrome d’abbandono del calcio. Se esistesse sarebbe una grande cosa, una sorta di opera benefica, di salvagente sociale: «Ciao, mi chiamo Benedetta e non gioco a pallone da una settimana. Percepisco una sensazione vaga ma poco rassicurante equiparabile al presagio di morte. Potete aiutarmi?».

Smettere non è una cosa semplice.

Rilevo una generale difficoltà da parte delle giocatrici, anche le più esauste e disilluse, a lasciare il calcio. Mi sono interrogata spesso su questa problematica, basandomi sulla mia esperienza. Forse l’abbandono è così traumatico perché la maggior parte di noi tende a confondere la propria identità di persona con quella di giocatrice, facendo coincidere le due cose fino al punto tale da eliminare ogni possibilità di scissione, di divaricazione, di cambiamento. In questi anni a causa di delusioni e fallimenti personali o di circostanze negative vissute all’interno di alcune squadre in cui ho avuto la fortuna/sfortuna di giocare, mi ha sfiorato a  più riprese l’idea di lasciar perdere il calcio, di dedicare la mia vita ad altre attività, di evolvermi, non “sprecando” più tempo dietro a qualcosa che in molti casi, purtroppo, mi ha regalato più dispiaceri che gioie. Ma non ce la faccio, è qualcosa che mi rende impotente perché sembra sfuggire al mio controllo. È un rapporto squilibrato di dipendenza unilaterale, perché io non posso fare a meno del pallone, ma il pallone può benissimo fare a meno di me.

ags

Il calcio è una conditio sine qua non della mia esistenza. Non riesco a pensare a una Benedetta non calciatrice, a una Benedetta che la domenica non scende in campo, a una Benedetta che non faccia parte di una squadra, che non “sbrocchi” dopo una sconfitta o che non si goda una meritata vittoria (sempre moderatamente, perché la felicità è intima, non va mai urlata). Sono nata con il pallone sotto al braccio. Non riesco a concepire la mia identità al di fuori del mio essere giocatrice di calcio a 5. Io gioco dunque sono. E percepisco questa sovrapposizione di identità (Benedetta persona=Benedetta giocatrice) anche a livello sociale e collettivo, come se il mio ruolo all’interno della società fosse ormai ben definito e riconoscibile. In pratica, anche non volendolo, io associo il mio riconoscimento sociale al fatto di essere una calciatrice.

Che poi, al di là di queste abbozzate indagini psicoanalitiche, ci sarebbero anche motivazioni più terra terra di natura narcisistica: a essere schietti, una “femmina” che gioca a calcio fa figo, è interessante, è intrigante, è uno shock che sorprende sempre (sebbene io aspiri a una realtà, forse utopica, in cui una donna che gioca a pallone non fa più notizia, non è uno scoop, ma è semplicemente la normalità, un fatto oggettivo come può essere un fatto oggettivo un uomo che danza o che gioca a pallavolo).

A dire il vero non dovrei mai dimenticare di essere molto altro, non dovrei mai adeguarmi a un’immagine di me che è solo parziale. Non sono solo una che gioca, sono anche una che gioca. Il fatto di giocare è soltanto una delle tante cose che mi si appiccicano addosso, un’apposizione, una mia caratteristica al pari dei miei capelli mori o della mia carnagione olivastra, qualcosa senza il quale io sarei comunque io, Benedetta sarebbe sempre Benedetta e, soprattutto, la realtà intorno a me sarebbe sempre la stessa realtà.

StreBen

 

Click to comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

To Top