Serie A

La lunga attesa di Cecilia Barca: “Di strada ce n’è ancora da fare, ma il sole alla fine esce sempre fuori”

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“Finalmente posso portare Jack al parco”.
Provate a chiedere a Cecilia Barca quale sia la ri-conquista più grande dopo il rientro post infortunio e avrete questa risposta. La grandezza delle piccole cose, il rimpossessarsi della semplicità.
Facciamo un salto indietro.
Rewind.
Un infortunio al piede costringe Barca a stringere fortemente i denti nel finale della scorsa stagione. Perchè? Per voglia, per passione, per responsabilità verso una squadra che in fondo è la sua. Ci è cresciuta dentro, ne è il capitano. E il capitano è l’ultimo a scendere dall’imbarcazione in caso di difficoltà.
Arriva l’estate, hai 23 anni, un infortunio importante al piede. Tanti medici, molti consulti, pareri, ognuno con la sua opinione. “Inizialmente non sapevo se avrei dovuto operarmi o no – specifica Barca – Alcuni medici affermavano la necessità di andare sotto i ferri, altri no. Nessuno credo ci abbia capito molto. Poi però arrivano le complicazioni. Si è creata la situazione per cui, se mi fossi operata, non avrei più potuto ne giocare ne correre. Te lo immagini? Pensi che tutto si aggiusta, che sei forte, che a te non possono capitare cose brutte, così difficili. Invece lo scenario che mi è stato proposto era piuttosto apocalittico. Come se ti tagliassero le ali.

Per questo motivo i medici, nello specifico Andrea Billi, hanno optato per una terapia conservativa. Hanno tentato sarebbe più appropriato. Perchè non era più solo un osso da rinsaldare, c’era da far tornare il sangue a circolare in una zona quasi morta. Si è battuto molto, il dottor Billi, per evitare un intervento chirurgico, perchè “se ti operi non puoi più giocare”. La convalescenza, il tutore, il dolore, il non riuscire a poggiare un piede dietro l’altro. Le prospettive non erano rosee. E’ stato difficile? Forse qualcosa di più, ma ce l’ho fatta e al dottor Billi devo tantissimo”.

Ricordo di aver incontrato Barca a Fiano Romano in un sabato di gennaio. La sua squadra era in campo, lei fuori cercando di dare tutto quello che aveva dai seggiolini del palazzetto. Jack sempre al suo fianco. “Non riesco neanche a portare il mio cane a fare una passeggiata. Ho paura di non riuscirlo più a fare, di non poter neanche più calcare un campo da futsal. Ho dolore e il dolore insidia il mio cervello. Sto facendo di tutto ma sembra non bastare”. Quando non vedi miglioramenti, quando ti sembra di stagnare nella difficoltà, nel dolore, uscire fuori dall’impasse può risultare più arduo del previsto, più di guarire fisicamente.

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Lavoro, lavoro e ancora lavoro. Per poter tornare a camminare con i propri piedi, a percorrere i passi di una vita che il suo senso lo aveva già trovato. E forse è stato anche questo a tirar fuori Barca dalle sabbie mobili dell’incertezza. “Mi sentivo anche inutile sai? Fare terapia da sola, non poter aiutare le mie compagne, essere costretta a rimanere fuori e non poterle sostenere, non poter dare loro una mano. Pensa che mi sono messa li con il tablet, disegnando schemi per le nuove compagne per potermi sentire utile in qualche modo. Volevo esserci, nonostante tutto”.
Ma perchè incaponirsi così tanto per tornare in campo vista la situazione? “Forse incoscienza. Di sicuro passione. Sono una persona che purtroppo o per fortuna pensa poco alle conseguenze. Piuttosto preferisce affrontarle successivamente che non pensarci in maniera preventiva. E’ da folli, lo so, ma se non avessi questo fuoco che mi brucia dentro, cosa sarei? Chi sarei?”

Il tempo, la pazienza, l’amorevolezza della famiglia e la tigna.
Fast forward
Marzo, primavera, rientro in campo. “Con il Città di Falconara. Sempre fortunata come vedi”. L’ironia è parte di Barca così come la sua romanità. O forse proprio per quella. “In molti potevano immaginare un rientro graduale, pochi minuti la volta. Ma una volta che sei dentro, non ce la fai neanche a star ferma. Ti stanchi il triplo ovviamente. Non ho minutaggio nelle gambe, ho perso i tempi di reazione che avevo. Penso a ciò che devo fare in una situazione ma il mio cervello ha bisogno di più secondi per elaborare anche la situazione conseguente e quello che dovrebbe far fare alle mie gambe. Devo ritrovare ancora tutto, ma se penso che solo fino a qualche mese fa questa poteva essere una prospettiva non percorribile, va bene così. Lavorerò, come ho sempre fatto, per tornare come prima, meglio di prima”.

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Se già non fosse difficile, il turno successivo le ha riservato il Bitonto e Renatinha, la sua ombra, la sua nemesi. “Ma non solo lei. Il Bitonto ha così tante giocatrici forti che scherzando, mi hanno chiesto chi avrei marcato delle tante” Detta così però non rende. L’affermazione corretta è stata “E adesso chi marchi eh?” venata di ironia e contentezza per rivedere una giocatrice come Barca finalmente in campo. “E’ stata una partita difficilissima, praticamente ho fatto navette con Mascia per tutto il tempo. Ci abbiamo provato ma non ci siamo riuscite. Nessuna paura però, tutto è buono come esperienza in vista Coppa”.

La Coppa Italia. La competizione della Lazio a pensarci. Guardiamo le ultime edizioni. La squadra di Chilelli ha sempre riservato vita dura alle avversarie, soprattutto al Falconara a ben vedere. L’immagine di una giovanissima Cecilia Barca, accovacciata sulle gambe in attesa di ricevere il premio come seconde classificate in quel di Rimini, è un’istantanea che non dimenticherò. Che nessuno in casa Lazio dimentica. “La Coppa Italia è la competizione delle competizioni. Le dinamiche di campionato non contano, non conta niente. Tutto vive e muore in quei giorni. Purtroppo quest’anno la formula scelta a mio parere penalizza tutti e rende meno coinvolgente l’evento.

Tutte noi aspettiamo la Final Eight, tutto il movimento. Tante partite, tantissime emozioni, incontri, relazioni, battaglie in campo e abbracci fuori. Non si può descrivere cos’è la Coppa Italia. Ridurla a due giornate, mi sembra come sminuirla, snaturarla, declassarla. Mi dispiace. Ma ora poco possiamo fare, possiamo solo impegnarci e dare tutto. Sarà una partita in fondo. Una sola. Se saremo brave due. Ma andiamo per gradi”.

Mancano due settimane in fondo. C’è Pasqua da festeggiare, che mai come per Barca vale una resurrezione. E poi il Fondi. “Non sarà facile. Hanno dimostrato di non essere mai dome nonostante tutto e noi non possiamo permetterci passi falsi. Bisogna fare attenzione ed essere concentratissime”.
Ultimi allenamenti e poi rompiamo l’uovo per scoprire la sorpresa che cela. “Io però la mia l’ho già trovata. Nella mia famiglia, nella mia squadra, nelle persone che mi sono accanto e non hanno mai smesso di sostenermi. Verso di loro provo un senso di gratitudine infinito.

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Esprimo poco le mie emozioni, sono timida, ma è grazie a loro che sono qui oggi e non posso esimermi dal farglielo sapere gridandolo più forte che posso. Avevo scritto anche un pensiero a dicembre, quando mi sono resa conto della grande fortuna che avevo e di quanto le piccole cose, i piccoli gesti, valgano invece come oro puro. Non l’ho mai condiviso ma credo che questo potrebbe essere il momento giusto”.

Da qui al futuro si guarda una gara alla volta, niente pensieri di lunga gittata. “Solo qualche mese fa l’idea di tornare in campo era un sogno, un’incognita. Per questo sono infinitamente grata per essere arrivata ad oggi. Questo è il momento di continuare a lavorare per ritrovare la mia forma fisica e mentale migliore, per aiutare le mie compagne, per far volare alta l’aquila nel cielo”.

“Senso di appartenenza.
Sette mesi.
Sette mesi senza camminare, senza correre, senza entrare in campo.
Un infortunio brutto, lungo, uno di quelli che ti fa pensare di aver perso tutto, di non poter più rimettere uno scarpino, uno di quelli che ti fa dire “non riuscirò a giocare mai più”.
Ma gli infortuni capitano, fanno parte del gioco.
Ti formano, ti fanno crescere, ti fanno osservare tanto, anzi tutto.
Il senso di impotenza che prende il sopravvento quando vedi la tua squadra in difficoltà, i loro sguardi, la forza che esplode in un contrasto, in una parata, in un salvataggio sulla linea, difficilmente te lo scordi.
Il dolore, il lavoro, le terapie, il recupero lungo ma costante, la fatica e la perseveranza (mamma hai visto, alla fine essere testarda mi è servito..), la pazienza, la cura e l’amore della mia famiglia, il Tuo essermi sempre accanto.

Mi aspettate da tanto, di strada ce n’è ancora da fare, ma il sole alla fine esce sempre fuori.
Non vedo l’ora di tornare a lottare insieme a voi.
Grazie.

Ah e comunque, ora il cane lo posso portare fuori io”.

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