26/05/2021
Ore 16:00
Ho il mare sulla destra, un bicchiere di gin e cola sulla sinistra. Lo so che a quest’ora è un po’ prestino per un aperitivo, e che pagherò il fatto di aver svuotato una confezione di patatine alla porchetta nel giro del primo tempo.
Ma stiamo pur sempre guardando una partita in tv e, alla fine, questi sono elementi essenziali.
Città di Falconara – Italcave Real Statte.
Le marchigiane, al termine della doppia sfida con le pugliesi, raggiungono la loro prima storica finale scudetto.
“Quest’anno scriveranno la storia” penso.
Ore 20:00
Non so stare lontano dal mare, non lo so fare generalmente, soprattutto oggi, soprattutto al tramonto. Sarei rimasta fino a vedere sorgere dall’acqua la super luna dei fiori, ma c’è una partita da seguire. Un’altra ancora, l’ultima per oggi. Tornare a casa però è fuori discussione.
Kick Off – Montesilvano.
Collego il pc al mega televisore di casa Santucci. C’è Tiziano che monta la sua statuetta di One Piece mentre Anthea racconta delle sue confusioni con American Pie.
Questioni di assonanze.
Mentre coccolo Sissi che non disdegna affatto, ragguaglio Tizi sulla situazione sportiva di quanto sta vedendo sullo schermo, aspettando di sederci a tavola per cena, sfruttando l’intervallo.
Rientra Vanila, con i suoi pantaloni rosa che non indosserà mai all’esame di terza media perché “portano sfortuna”.
“Questione di scaramanzia” penso, come chi entra in campo sempre con lo stesso piede, o alza gli indici al cielo ricordando qualcuno, o ancora si friziona i capelli prima del calcio d’inizio.
Inizia il secondo tempo e la voce di Peppe Di Giovanni, che personalmente adoro, accompagna i discorsi attorno al tavolo.
“Palla a Pomposelli”.
(Dovreste immaginare l’enfasi e la cadenza di Peppe per poter ben figurare la scena)
Pomposelli.
Vanila mi guarda con espressione interdetta.
Ha una domanda da fare.
Lei, che ne aveva a milioni quando le ho spiegato l’effetto serra, camminando in quel limbo tra la fanciullezza e adolescenza. “E perché?”.
“Fe, ma scusa, Pomposelli non è un calciatore?
Mi stupisco che abbia captato quel nome tra i tanti. Mi stupisco che l’abbia associato ad uno sport che si gioca con la palla. Mi stupisco meno sul fatto che lei pensi si tratti di un uomo.
Come fosse scontato che a calcio giochino solo i maschi. In fondo il suo papà ieri sera era a giocare a “calcetto”.
Anche se, proprio lei, potrebbe riportare alla mente una giornata estiva di qualche anno fa, quando Sara Iturriaga, allora al Montesilvano, le faceva fare giochi con la palla al piede in uno degli open day organizzati dal Montesilvano C5 Femminile in quell’estate.
“Si Vani, è un calciatore. Sta giocando adesso. E’ una donna però”.
“Ah. Perché Gaia ha la sua maglia”.
Un’amica, una maglia. Pomposelli.
Il Montesilvano vince largamente sulla Kick Off, raggiungendo così il Falconara in finale. Ma il mio pensiero rimare su quella domanda, su quella maglia.
Soprattutto in questi giorni, intrisi da discorsi sulla questione di Aurora Leone e il suo allontanamento dalla cena della Partita del Cuore.
Non credo sia un caso, ecco.
“Quando diventerà “normale” che una donna giochi a calcio? O che sia un ingegnere meccanico o “semplicemente” meccanico, pilota, matematico, geometra, affrancandosi definitivamente dal medioevo culturale che attanaglia la sua figura?” penso.
“E’ una questione di esempi – penso – e di testimonianza”.
Mi viene in mente Frezzato e il suo Cappuccetto Rosso alternativo. E’ un libro illustrato per bambini, ma pensato per poter raccontare anche una storia diversa. Dipende da cosa si sceglie di leggere, di raccontare. Da cosa gli adulti scelgono di leggere ai bambini.
Un volo pindarico di pensieri mi porta a riflettere sulla recente decisione di obbligare le squadre femminili a creare una under 19 per potersi iscrivere al campionato di Serie A.
Accade più o meno sempre così, soprattutto con le donne, soprattutto con i giovani.
“La squadra maschile si può iscrivere al campionato solo se la società crea anche la femminile”. Un movimento che nasce per dovere e non per volontà. Un male necessario, come si dice.
“Le imposizioni non portano mai da nessuna parte”, penso.
(Avete per caso visto Temple Grandin? No? Ve lo consiglio fortemente)
E’ come decidiamo di raccontarci che cambia radicalmente la prospettiva. Credo sia gran parte nostra responsabilità, di noi donne, scardinare il pensiero comune fermo al 1200 e prenderci la libertà di viverci senza limiti di pensiero.
Non dobbiamo giustificare le nostre scelte, perché calcio piuttosto che danza o perché ingegnere piuttosto che assistente sociale.
E’ la narrativa che dedichiamo a noi stesse la chiave per ridurre quel gender gap, quel dream gap, che troppo ancora separa i desideri dalla realtà. E’ per noi che deve diventare normale.
Si può partire da un punto piccolo. Quasi insignificante.
Una maglia.
Pomposelli.
Non avrà raggiunto la finale scudetto, ma, senza dubbio ha giocato un assist al bacio in una partita ben più grande e importante. In fondo, il motto del suo Be Brave è “dare un calcio agli stereotipi”, no?
