Maggio non è solo tempo di playoff, di stagioni sportive. Futsal, Football Americano, Basket e Baseball. Dall’altra parte del mondo, c’è una brevissima stagione che dura solo un mese che è appena iniziata e già si sta concludendo.
Zhūmùlǎngmǎ Fēng , così la chiamano i cinesi.
Inizia con una suggestione, un titolo su Netflix.
EVEREST.
La morte di 8 scalatori, tra il 10 e l’11 Maggio del 1996 è la più grande tragedia dell’alpinismo sull’Everest. Il terremoto del Nepal del 2014 e la valanga che travolse il campo base dell’Everest, hanno però superato quel tragico primato. Ho guardato questa pellicola con la curiosità, di qualcuno che ama lo sport, che vive a ridosso della montagna e del mare. L’alpinismo è uno sport. Spesso nelle brevi pause di questa lunga pandemia m’è capitato di inciampare in articoli che raccontavano di incidenti, anche mortali in montagna. Ogni libro, ogni film, ogni canzone sono una occasione per imparare qualcosa, per scoprire nuovi mondi e arricchire il mio immaginario.
Scopro che agli inizi degli anni novanta, un alpinista neozelandese Rob Hall, letteralmente inventa, le scalate commerciali alla vetta più alta del mondo. Sebbene l’Everest con i suoi 8848,86 metri sul livello del mare, sia la vetta più alta del mondo, è perfettamente raggiungibile anche da non professionisti. Un sistema di scale, corde, percorsi assistiti e grandi quantità d’ossigeno hanno permesso negli anni di portare in vetta i personaggi più disparati. Ad un prezzo altissimo.
Questa pellicola racconta proprio la tragedia di questa sorta di “febbre da vetta”, di questo desiderio umanissimo e letale di andare oltre, di poter conquistare un traguardo che in pochi hanno raggiunto. Pagando con la propria vita.
Una vicenda umanissima, di debolezze, d’atti eroici e di umana miseria. Consumata in una parte della montagna chiamata la “zona della morte”. Qualcuno scientemente, attraversa a piedi quota ottomila metri. A quella quota, l’ossigeno disponibile per far funzionare il corpo umano è solo del 15 per cento. Un terzo del necessario. Il corpo dell’alpinista inizia semplicemente a morire.
Ecco perché gli ultimi 848,86 metri sono letali. Per raggiungere una quota alla quale l’0rganismo umano può acclimatarsi, bisogna raggiungere i 5000 metri del campo base, dove l’ossigeno è al 50 per cento rispetto al livello del mare.
Ho curiosato in giro, ho letto un paio di libri sull’argomento e ho scoperto un bellissimo blog. Quello di Alan Arnett. Alpinista, istruttore, divulgatore. Un tipo capace di scalare il K2 a 58 anni suonatissimi. Non tralascio di spiegare che sul K2 si sale sole se si un alpinista e che quella montagna ha il più alto rateo morti/scalatori in vetta di ogni altra montagna sopra gli ottomila, Annapurna 2 compreso. Lungo la catena dell’Himalaya ci sono montagne che restano li incuranti di questi piccoli uomini che vogliono scalarle.
Arnette segue ogni stagione di ascesa alla vetta dell’Everest, attraverso le sue pagine digitali.
Perché ve ne parlo proprio ora? Maggio, in particolare i primi quindici giorni, sono il momento ideale per tentare l’assalto alla vetta. Solitamente le condizioni metereologiche sono le migliori.
L’Everest e li. Con il suo cappello di neve sfregiato dal vento. I nepalesi la chiamano Sagaramāthā, “Dio del cielo”.
C’è qualcosa di mistico nell’essere sul “tetto del mondo”. Quella vetta è li, perché non scalarla. Dall’avvento delle spedizioni commerciali, il rateo di morti si è impennato vertiginosamente. Solo nel 2019 sono porte dieci persone. Attendevano in fila nella zona della morte di salire in vetta, praticamente senza ossigeno. Sebbene il governo nepalese abbia ridotto il numero di permessi per tentare l’impresa, continuano ad esserci prenotazioni di non professionisti. Non sono gratis, non sono garantite, eppure 42 mila dollari non scoraggiano quelli che vogliono poter dire di essere stati sulla cima dell’Everest.
Non importa, sembra, che poi molti non possano raccontarlo, che rimangano seppelliti per sempre a meno quaranta gradi in un tomba di ghiaccio che ne consuma le parti molli come fa l’acqua con la superficie delle pietre. L’Everest è li, sovrano che s’innanza di qualche frazione di centimetro ogni anno, a causa dello scontro tettonico. C’è un rituale sacro che gli alpinisti compiono prima di tentare di raggiungere la vetta. Chiedono letteralmente il permesso allo spirito della montagna di poterla scalare. Il monastero di Tengboche è una tappa obbligata.
Ho scoperto un mondo, di storie tragiche e affascinanti. Di una umana profondità che s’intrufolano nelle parti più profonde dell’animo umano. Storie ai confini del mondo e forse anche oltre. Storie di uomini e di donne, tante, spinte da una forza interiore che sembrano possano trovare solo lassù, tra le nuvole.
Ne ho altre di storie così, d’alpinismo e di sport. Di sofferenza e di vittorie. Di lacrime e di gioia e alcune volte le due cose insieme.
