Una notte pigra, di quelle troppo scure e troppo lunghe per essere vere.
Solo russi online, perché da loro è già mattino. Digito: Netflix. Seleziono il mio profilo.
Un docufilm sulle polaroid, quelle 20×24, grande formato. La storia di Elsa Dorfman. La passione di una vita, Alan Ginsberg, l’accettare il proprio corpo con tutti i suoi difetti, le percepite imperfezioni. Ritratti, quelli scartati che diventano l’enorme archivio di una vita passata a raccontare. “Say Hello to the Future”, la frase che s’attacca ai miei ricordi e mi porto fuori da questa narrazione delicata, d’un tempo passato da non troppo.
Arrivano i playoff. C’è chi è costruito per andare incontro al suo destino, chi spera di incontrare un destino migliore e chi è semplicemente lì per godersi il viaggio.
Cosa c’è però dietro alla facciata, alla diretta streaming, alla retorica del: famiglia, squadra e cuore che nemmeno ad un congresso di cardiologia. C’è qualcosa oltre gli scatti a raffica, alle card da mille mila giga e oltre l’apparenza.
M’è tornato alla mente quel momento in cui Elsa Dorfman mostra le foto scartate dai clienti, quelle che lei chiama il B-Side. Lei che guarda l’obiettivo e invita suo figlio a “salutare il futuro”. Forse le foto sono questo. Un istante consigliato al futuro. Dov’è che mio padre tiene conservate le sue diapositive, quelle in bianco e nero? Le rigiro tra le mani, questi artefatti di una epoca, questi frammenti di una fotografia che non è più solo passione e quasi professione.
“Generale, perché non scatti più foto?”
“Non esco più…non vado da nessuna parte”.
“Ma se sei sempre in giro…”
“Si, qui intorno e le fanno già tutti quelle foto”.
Quando hai fermato i ricordi in Islanda, sulle montagne della Turchia, a Puerto Rico, nelle basi sperdute di mezzo mondo, nel ventre di una portaerei e sul suo ponte, questi luoghi devono sembrarti noiosi.
“Non si fotografano i panorami, per quello ci sono le cartoline”,
“Niente scatti in automatico e con l’autofocus, è da sfigati”,
“Le vero foto sono in bianco e nero”.
“Le diapositive”.
Sono cresciuto così, regalo di 18 anni: una nuova videocamera. Per i suoi 40 una Minolta che è ancora in giro, anche se non trovo modo d’adattare i suoi obiettivi alle mie di reflex.
I rullini. “Ogni foto deve contare”.
Polaroid.
Una vecchia 600, non la macchina della Fiat. Ventiquattro anni sulle spalle. L’ho ripulita, sistemata ed ho ordinato su Amazon, due pacchi da sedici foto. Trentadue in totale.
Posso fermare il tempo solo per trentadue volte, ogni scatto sarà per sempre. Come ogni minuto di questi playoff. Sarà il mio viaggio, incontro all’inevitabile vincitore dello scudetto. Saranno foto che racconteranno le emozioni di altri, filtrate dalle mie. Sarà sicuramente un racconto pieno di lacrime, triste. La vita è così. Sarà però anche l’attesa di quel breve istante di felicità, di quel sorriso, di quella luce negli occhi che si ferma il tempo d’un battito di ciglia.
Sotto ogni foto c’è uno spazio bianco, che custodisce i liquidi per lo sviluppo della pellicola. Li troverà spazio una frase, una piccola storia, il racconto di quella foto. Ho preso un pennarello indelebile per lasciare un segno su quella istantanea, per fermare il tempo. Quel tempo.
In attesa del pacco con le pellicole, in arrivo Domenica, spero prima di partire, ringrazio voi. Si tutte voi, splendide e meno splendenti protagoniste di questo mio lungo viaggio tra le vostre vite, le vostre vittorie e sconfitte, sportive e non. Grazie a voi che m’avete aperto la porta dalla quale ho potuto sbirciare i vostri sogni, grazie a quelle che lo faranno e anche a quelle che non l’hanno fatto. L’unico conforto in questo strano luogo dove s’è perso il mio cuore e che in quel campo, intorno ad esso troverò una ragione, uno sguardo, l’abbraccio che rende sopportabile ancora per un po’ questo viaggio della vita.
