L’uomo nell’alto castello, ogni tanto scende tra la gente nelle vie tortuose della sua città. Osserva l’umanità varia, quella sempre in corsa, con una destinazione in mente che non raggiungerà mai. Disegna schemi sui tovaglioli del bar, dispone giocatori improponibili nella posizione di centrale difensivo e poi guarda la cameriera con i tatuaggi disposti a caso e la coda di capelli che s’allunga su tutta la schiena.
Non può vederle il viso in un mondo di mascherine e di maschere. Queste però, lasciano liberi gli occhi e quelli alla fine difficilmente mentono.
Squilla il telefono.
“Possibile che bisogna spendere quelle cifre per vincere?”
Silenzio, una pausa come se le parole arrivassero dalle profondità della terra.
“Si e non è nemmeno detto che ci riesci”
L’assenza di suono che si ripete, il vuoto di un tempo che s’allunga senza finire mai.
“Per vincere però io intendo arrivare ad un minuto dall’eliminare il PSG spendendo l’equivalente degli spiccioli che ha in tasca Neymar”.
Mentre attendo la risposta, in quello spazio apparentemente interminabile di silenzio, i miei ricordi si mischiano e s’aggregano come una salsa per condire un viaggio tra i ricordi dei protagonisti, nel mezzo di una partita che ho scoperto troppo tardi.
Una di quelle che dovrebbero essere raccontate, ancora e ancora, per essere poi incise nell’immaginario.
Affiorano i ricordi, di gradinate e stadi gremiti, con mio padre affianco e a lui nemmeno piace davvero il calcio.
26 Giugno 1987, al 72esimo Bosco spara un siluro alle spalle del portiere del Parma, il “famoso” Parma di Sacchi, giusto sotto la Curva Nord. Una squadra costruita per la C1 si prendeva il primato della Serie B e al promozione in Serie A. Un gruppo di giocatori messo insieme che parte per il ritiro con nove giocatori, nemmeno abbastanza per una partitella cinque contro cinque. Quegli uomini, quel pomeriggio, aveva completato un miracolo.
Quella non era solo una partita, era l’epilogo di una favola intorno alla quale si era stretta l’intera città.
Le favole però non finisco mai, si tuffano nella successiva.
20 Maggio 1992.
Un ragazzino brufoloso aveva un sogno: “Assistere ad una partita a Wembley, una qualsiasi”.
Gli regalano il suo sogno. Un compagno occasionale e i due si somigliano tanto, un viaggio nella notte belga, un aliscafo ad Ostenda e un posto a sedere per la Finale della Coppa dei Campioni, quella vera, quella di quando partecipavano solo le squadre che vincevano il titolo nazionale.
Sampdoria-Barcellona. Zero a Uno, gol su punizione di Koeman. Non ho dormito per due giorni e non avevo nessuna voglia di farlo, chi vuol svegliarsi dal suo sogno ad occhi aperti?
Il silenzio pieno di pensieri e favole s’interrompe.
“Nel vincere facendosi comprare tutti ii fenomeni c’è un solo talento, la capacità di gestire il gruppo. Nel vincere con un gruppo di giocatori con i piedi come dei comodini dell’Ikea ecco per quello ci vuole un allenatore vero. Non dirmi che non è possibile anche nel futsal”
“L’ho visto fare solo ad una persona…solo ad una squadra.”
Questi sono i primi ingredienti con i quali vorrei cucinare questa storia, che somiglia a quella dell’ex traduttore per il Barcellona, ex allenatore del Uniao de Leira, Laureato in Educazione Fisica e Motoria perché ha capito prima degli altri di essere troppo scarso come giocatore.
Si, lui.
“Special One” ha cambiato significato nel tempo, si è trasformato in sinonimo di chi vince invece di mantenere il suo significato originale, così come lo spiegò l’ideatore di quel soprannome.
“Ho vinto una Coppa dei Campioni con il Porto, quindi si, sono un po’ speciale”.
Le parole di Josè Mourinho, fresco vincitore della Champions League 2004.
Aveva ragione a definirsi così, aveva vinto il più prestigioso trofeo europeo con un manipolo di “scappati di casa”.
Vale la pena ricordarne qualcuno: Ricardo Carvalho noto per aver azzoppato più gente della polio (lo seguì poi al Chelsea), Costinha motore inesauribile del centrocampo del Porto solo corsa e fiato un Padoin insomma, il lituano Edgaras Jankauskas memorabile solo per il suo essere uno spilungone con un nome impronunciabile, Deco che andò poi al Barcellona dove doveva portare il suo talento ma non ne aveva abbastanza per i blaugrana. Sérgio Conceição dimenticabile carneade che ha vestito anche la maglia della Lazio e del Parma. Dmitrij Aleničev l’ucraino triste passato anche da Lecce senza lasciare traccia. José Bosingwa abbastanza talento per essere prelevato giovanissimo dall’Ajax ma rispedito presto al mittente. Maniche, ecco Josè lo faceva sembrare un incrocio tra Pirlo e Inesta, in realtà una “pippa” inenarrabile con la grinta di un soggetto in sedazione chirurgica. Un gruppetto di Ferreira strappati al lavoro nei campi, un sudafricano malinconico, anche lui ex Ajax: Benni McCarthy e poi un portiere vero, l’immenso Vitor Baia.
C’è una storia simile a questa nel calcio a 5?
C’è qualcuno che ha guidato un manipolo di giocatori dal talento sfuggente, di onesti operai del pallone, ad un qualche risultato?
Non è necessario il lieto fine in questa storia anche perché s’è persa, in questi anni, l’importanza della sconfitta, di quanto quelle ferite sportive brucino sulla pelle di chi compete e lo spingano a fare meglio.
La voce al telefono mi fa un nome, mi da un contatto. Lui c’era ma io sono estremamente diffidente.
Guardo una registrazione della partita, c’è qualcosa in quei giocatori che affrontano il gigante Golia e non si spaventano. Restano attaccati alle maglie e alla partita, ma sto correndo in avanti, troppo in fretta.
Sistemo gli appunti e quindi prendo a prestito occhi e parole, sensazioni e ricordi di chi c’era per raccontarvi di una partita a cui avrei voluto assistere dal vivo e che dovreste conoscere tutti, perché per innamorarsi c’è bisogno di una ragione ma per continuare quando l’infatuazione passa abbiamo bisogno dei ricordi.
Una voce, l’accento che sa d’operosità e tortelli, da quella terra che se gli chiedi di farti una macchina, loro ti fanno una Ferrari.
Arriva il giorno del sorteggio.
La partita delle undici del mattino, fondamentale evitarla. Vignoli, il capitano sarebbe stato assente: “motivi di lavoro”.
Iniziano a girare i bussolotti nell’urna nella partita delle undici il primo nome che salta fuori è: Imola.
La vita non è mai giusta, nemmeno due volte al giorno e allora che almeno non ci sia da affrontare il Pescara, la squadra costruita per vincere, quella piena di grandi giocatori.
Mani s’affannano a svitare quella pallina con dentro l’avversario dell’Imola.
Pescara.
Due timori s’incastrano per trasformarsi in un incubo.
Sveglia alle cinque del mattino, pulmino verso Tolentino. Di viaggi così ne avevano già fatti tanti questi ragazzi, con il sole che sorge dietro agli autogrill e tutto diventa inevitabilmente blu e arancione. Dentro l’odore di colazioni prese in fretta, di panini che ammiccano e di viaggiatori stanchi.
Fuori l’odore di piscio, sudore e benzina si mischiano e ammorbano l’aria.
C’è quel silenzio tipico, quello che ti blocca i pensieri prima che arrivino alla bocca e quindi ognuno resta con i proprio demoni, con le proprie paure.
Pescara, terza partita contro e due sconfitte come precedenti.
All’andata in casa, un massacro, quel genere di partita in cui gli avversari sembrano essere in numero superiore e spuntare anche “dalle fottute pareti”.
Sono passati però solo dieci giorni dalla gara di ritorno in campionato, l’avevano giocata quasi alla pari e insomma questa che doveva essere una stagione di sofferenza si è rivelata “una stagione di fede assoluta”.
L’Imola è salvo e ad un passo dai playoff.
La preparazione fisica è stata modificata in funzione della Final Eight, serviva il picco della condizione per competere davvero, già competere e poi se si riesce vincere ne è diretta conseguenza.
Il loro allenatore getta uno sguardo verso gli spalti, gremiti, ragazzini delle scuole felici del giorno di scuola passato a guardare giocare a pallone.
Opening Day della manifestazione, l’elettricità sulle mani e i dubbi nella mente. Avrebbe pagato sul campo la preparazione specifica, quella senza sensazione di dieci giorni prima era solo un’illusione?
Cuzzolino, Canal, Caputo, Mati Rosa.
Sono loro ad occupare l’altra metà del campo e quando sei l’Imola forse ti senti già onorato a dividere il campo con chi ha scritto e continua a scrivere pagine sportive importanti per il futsal.
Fermo la registrazione della partita e i ricordi che mi sono stati prestati per aiutarmi a raccontare questa storia.
Premo di nuovo play e osservo un giocatore dell’Imola, senza nome per me, abboccare ad ogni finta di Cuzzolino ma tornare in posizione con una reattività incredibile.
Salas si getta nel mezzo, prende in contro tempo l’avversario sembra essersi liberato ma l’avversario lo rimonta e lo contiene nella zona del calcio d’angolo.
Pausa. Rewind.
Eccola la trattenuta, leggera, solo per quell’attimo necessario a farlo recuperare a tenere il passo.
Intensità.
Stop alle immagini, play ai ricordi.
Arriva il gol del vantaggio, come qualcosa di scontato, inevitabile. L’aspettavano tutti come il primo di una lunga serie.
Invece l’inerzia della partita non cambia, quell’insieme di onde emotive, cinetiche e tecniche sulle quali viaggia ogni sport di squadra non avevano spostato la marea tinteggiandola di bianco-azzurro.
L’Imola non arretra, si ricompatta e tenta qualche sortita, arriva poi un palo quello di Revert che scuote il montante ma anche le certezze degli avversari.
Gli occhi e i ricordi di chi occupava un seggiolino dalla tribuna opposta alla panchina, dall’unica tribuna.
Osservano le sicurezze diventare timore e l’esitazione annebbiare le line di passaggio. Castagna si piazza al limite dell’area del Pescara e non c’è risposta alla sua dinamicità, s’incolla il pallone al piede e le spalle alla porta e non c’è verso di anticiparlo, arginarlo. Avanza il portiere dell’Imola e si gioca con il portiere di movimento che però è sempre lui, quel Juninho che diventa l’uomo in più e il muro contro il quale s’abbattono le bordate biancoazzurre.
Sirena.
Fine primo tempo.
“Solo uno a zero, ma già al Pescara mancano Duarte, Borruto e Chimanguinho.”
“Stai scherzando? Insieme quei tre costano più di tutto l’Imola.”
Lupini e ceci secchi, Borghetti al bar, alle undici del mattino una birretta ci può stare ma anche no.
Il dito sul tasto e allora “press play on tape”.
Nello spogliatoio maglie fradice e visi concentrati, importa ora però che ci siano le gambe. Lì fuori c’è bisogno di battersi su ogni pallone ma si può fare, potete farlo se ci credete abbastanza, se restate dentro questa partita, come se non ci fosse tempo per il domani. Il presente a diventare storia impiega il tempo di un respiro.
Ci provano ancora, portiere in mezzo al campo, dopo quel palo di Revert allora possono davvero farlo, se solo Jelavic l’avesse buttata in rete ma non c’è tempo ancora una bordata da fuori di Juninho e la palla respinta arriva verso Deilton.
L’azione rallenta e frame dopo frame arriva quella deviazione vincente e la palla tocca la rete e arriva il pareggio.
Pescara 1
Imola 1
La pressione la senti sulle gambe e nella testa ma è come una nube di tempesta che aleggia sul campo, si sistema nella metà campo biancoazzurra e resta li.
Borges corre che sembra aver trovato energie dove probabilmente non sapeva di averle, tutte quelle ore in palestra, quel lavoro, sudore e fatica hanno un senso, l’unico possibile.
Finisce che se dai l’esempio i tuoi compagni ti seguono anche se non ne hanno più, anche se la fatica ti spezza il fiato e le gambe. Quando Napolitano entra e fa 2 a 1, quel sogno sembra davvero troppo grande. Gol annullato all’Imola e si torna a combattere su ogni pallone, su ogni maglia, su ogni secondo di quel maledetto cronometro.
Sirena.
I ricordi poi si confondo, s’annebbiamo e si riempiono di “se” e di rammarico.
La partita perfetta non esiste, almeno quel giorno e su quel campo.
Le maglie biancoazzurre avanzano, prendono il pallone e con la consapevolezza di chi ha già letto quella storia, ha vissuto quel momento, scaraventano il loro rigore direttamente in gol.
Quella scelta, quella sequenza che rimarrà un cruccio e uno sprone, quel dubbio conficcato in un angolo della vita che hai svoltato in una direzione diversa e viene da chiedersi: “e se?”
Stop.
Vi ho portato fino a questo punto. Alle righe finali di una battaglia sportiva, di una vicenda di uomini e di sport che val la pena di trascrivere per ricordarla, di raccontarla ad altri per condividerla.
Forse ho illuminato gli angoli, ho colorito le pareti, ma devo ringraziare chi senza neppure conoscermi davvero mi ha concesso di camminare per un po’ nei suoi ricordi, nel mezzo del suo sogno.
Perché per ogni miracolo dell’Atalanta, c’è un Imola che non conosce quasi nessuno, per ogni Gasperini, c’è un Pedrini che davanti allo schermo è partecipe dello stesso dolore sportivo.
Malines, la 4×100 del Leicester, Stromberg, la sedia alzata sulla testa di Mondonico.
Per ognuna di queste imprese impossibili c’è un Pedrini che guida un manipolo di giocatori che non hanno una carriera di cui preoccuparsi, senza passato ma solo con un futuro davanti.
Continuerò a raccontare di voi, di quelli che somigliano un po’ a tutti noi e per questo li amiamo, non solo per l’emozione che ci regalano ma per i ricordi che ci permettono di conservare.
Questa è una favola senza lieto fine, racconta di una sconfitta.
Nel dolore che ti lascia dentro perdere, c’è lo sprone che ti conduce alla vittoria. Non lo vuoi più sentire quel pugno che ti stringe la gola, quel pulsare sordo del cuore e il sapore del fiele nella bocca.
Lascio però che siano parole non mie a fare da commiato al lettore: “Nel mondo dello sport c’è un abisso tra essere perfetti e quasi perfetti. Orgogliosi di essere stati quasi perfetti.”
