“Buongiorno! Ti sto per chiedere una consulenza.
Allora nelle varie riorganizzazioni post Covid sembra ci sia la volontà di metter su una sezione sportiva legata ai videogame.
Secondo te su cosa dovremmo puntare, come strutturarla.”
Mi interrogo spesso su questo vuoto cognitivo nelle società sportive italiane, come mai nessuno ha pensato di organizzare una sezione dedicata agli esport.
Quindi avevo una risposta pronta da tempo a quel quesito.
Come se qualcuno mi avesse chiesto di aprire un enorme baule in cui negli anni avevo risposto idee e ricordi.
In fondo a quel baule c’è riposto un momento preciso della mia vita: Four Horsemen, Naxxramas, World of Warcraft. In quel momento ho realizzato di trovarmi in compagnia dei 39 migliori al mondo, tra oltre 12 milioni di giocatori.
C’era questa “cosa” ed ero bravo nel farla, più bravo di altri e anche quando la facevo male, non ero così scarso come gli altri. Quella sensazione di poter accelerare il mio modo di giocare e in quel momento diventare irraggiungibile, gli inglesi lo chiamano “competitive edge”.
Ho investito in questa passione migliaia di ore, potevo quantificarle esattamente chiedendo al gioco /played, mi spaventava quel numero perché mi rendevo conto di non riuscire a spiegare alla mia famiglia e agli affetti, perché passavo tante ora li, in quel contesto competitivo e sociale. Non mi pesavano i sacrifici e nemmeno i cartoni di pizza vuota, birre consumate a metà, amori persi, trovarti, dimenticati.
“Non puoi lasciare il lavoro, quello non è un lavoro vero”, li ho ascoltati e questo è tra i miei più grandi rimpianti.
Hanno dato voce alle mie paure invece di rafforzare i miei sogni.
L’ho fatto ancora quell’errore, perché probabilmente non avevo imparato la lezione.
Quelli che vi dicono di “volervi bene”, mentono. Lo fanno con tutta la ferocia possibile.
Sono tornato ad un lavoro “normale” e mi sono portato per sempre questo rammarico nel cuore.
Ho continuato a giocare, a vincere ma mai per denaro, mai come lavoro sebbene investissi un cospicuo numero di ore in questa attività. Non era però la stessa cosa, mi mancava la squadra, quella voglia di vincere, quel desiderio di sacrificarsi pur di raggiungere un traguardo. Le grida nel microfono quando cadeva un obiettivo ed eravamo i primi al mondo a raggiungerlo.
Al mondo, quella parola suona ancora con un brivido nella schiena.
Non sono quasi mai riuscito a giocare con gli amici, non passa molto tempo e quella parte competitiva di me si riprede il suo posto tra i pensieri coscienti.
Il mio modo di relazionarmi agli altri cambia. Inizio a visualizzare i loro errori, a chiedermi come mai non riescono a reagire abbastanza in fretta, a spiegare come migliorare il loro gioco. C’è un problema, loro sono li per passare il tempo e io, sono ancora li per vincere.
Ne sa qualcosa Consuelo, le nostre sere passate su The Division restano memorabili, iniziano sempre con me che cerco di consigliarla e poi finiscono con lei che mi dice: “Eddai Maurino non l’avevo visto” e io che le chiedo quando si fa operare alla cataratta.
Brian Clough diceva “the unfulfilled player makes the best manager”, il giocatore che non si è realizzato può diventare il migliore degli allenatori.
Quando ho letto la frase in quella chat ho subito pensato a questo.
Al sogno di poter spiegare a dei ragazzini che no, non c’è nulla di male nel giocare ai videogame, che quelli che dicono loro di uscire, di farsi degli amici sono dei “boomer” che non hanno capito nulla, che se questo è il loro sogno ci devono credere perché io so cosa accade se non lo fanno, non si perdoneranno mai.
Tutto d’un fiato, tutto in una frase, in un sono respiro e senza aspettare il secondo battito del cuore.
Aggiungerei poi, con più calma, che negli esport non importa se sono maschi, femmine, alti, bassi, grassi, magri, con gli occhiali o senza. I loro difetti non so no un problema, sono la ragione per la quale oggi, sono seduti davanti al loro computer, alla loro console.
Questa è la loro occasione per liberarsi del “body shaming”, di quel pregiudizio diffuso e vincere.
Perché possono.
C’è però una ragione più importante: perché lo vogliono.
Come in uno sport vero, di quelli tradizionali, ci si allena per tante ore al giorno, si vive di quella passione e la si sogna anche, a me accade ancora e allora accadeva spessissimo.
Oggi loro, hanno un vantaggio che io non avevo, girano soldi veri, tanti soldi. Se li vogliono sono li, devono solo lottare per prenderli, per fare di questa passione un lavoro, per vivere felici inseguendo un sogno invece che tristi inseguendo quelli di altri.
Gli esport rappresentano l’occasione di riscatto per tutti quelli che pensavamo “sfigati” invece non eravamo in grado di comprendere, per quelli che hanno un sogno che non comprendiamo e per questo ci affanniamo a distruggerlo.
C’è una comunità di gamer, appassionati, entusiasti che trascende i confini nazionali, le ideologie, le razze, il credo, l’età.
Autentica, empatica, talvolta tossica ma reale, tangibile.
Mi regalo un sogno, quello di poter assemblare una squadra e al primo giorno d’allenamento e poter dire loro: “sedetevi con me e dimostrate che potete battere questo vecchio con le sinapsi rallentate dall’età, per farlo però, dovete giocare come una squadra”.
Sul muro capeggerebbe questa frase: “Non alzatevi mai dal tavolo da gioco, perché quando lo farete, scoprirete di essere diventati troppo, irrimediabilmente, vecchi”.