“Assegniamo i titoli, torniamo a giocare, finiamo i campionati.”
Fuori dalla finestra l’unico rumore sono le sirene delle ambulanze.
Ieri ho visto sanificare l’appartamento di un mio vicino, l’avevano appena portato via.
Da quando è iniziata, non abbraccio mia sorella, i miei genitori, ci lasciamo la spesa sull’uscio, ci parliamo ad un metro di distanza.
Ripartiamo, dobbiamo finire la stagione, battere i pugni sul tavolo, il burlesque ancora al comando e intorno mentre i nani e le ballerine vanno in scena, il Paese cambia per sempre.
L’ovvio si trasforma in eccezione, la banalità di un compleanno diventa un prezioso momento da festeggiare. Abbiamo tutti paura di essere il lupo per l’altro uomo, esattamente come ci descriveva Hobbs.
Siamo diventati il peggior nemico di noi stessi, un nemico letale.
Gli interessi politici, prima di quelli umani.
Lo sport è importante ma lo sono anche gli uomini che lo animano, tutti maestri di soluzioni contingenti a problemi che nemmeno comprendono, tutti con una risposta giusta ma senza la domanda essenziale.
Se l’unica abilità che avete è calciare un pallone o tenere una lavagnetta in mano, questo forse è il momento per tutti noi, della riflessione.
Ho l’impressione di essere tornato ai ritmi di vita dell’università. Forse il timore per il futuro è più concreto, più denso, più acuto.
Mangio, scrivo, studio, gioco ai videogames.
Mancano però i rumori, i suoni, manca una quotidianità che forse non tornerà mai più.
La Formula 1, il MotoGP, la Indycar e ora anche la NBA. Sport diversi che cercano una nuova via, per sopravvivere, perché come vi direbbe Eduardo De Filippo: “Adda passà ‘a nuttata”.
Forse non siamo in quella Napoli che di milionario aveva solo la disperazione ma ci siamo abbastanza vicini.
Si sono sospesi gli affetti, abbiamo sospeso il nostro modo di essere italiani, profondamente latini, legati come siamo al tocco, al nostro cuore.
Marco mi scrive da Bergamo, dalla linea del fuoco, come l’ha giustamente chiamata il presidente dell’Albania.
Talvolta ho l’impressione che sia Marco a dare fiducia a me e non il contrario.
“Bisogna assegnare i titoli, la UEFA, gli sponsor i contratti da rispettare e quelli che non sono stati mai rispettati.”
Ci sono ancora le bare in fila, da portare via con i camion dell’esercito, da smaltire.
Smaltire, come un rifiuto pericoloso, i nostri cari, i nostri affetti.
“Bisogna tornare a giocare presto, finire il campionato, giocare fino a luglio.”
Quelli che si lamentano ora ma non dicevano una parola quando il loro precedente presidente non pagava i giocatori e non aveva una pandemia da utilizzare come scusa.
Moralizzatori a convenienza, di quella morale che comprano al discount della vita ma solo quando ha un prezzo vantaggioso. Gli stessi che beccano squalifiche chilometriche ma stranamente sono sempre ingiuste, sempre pronti ad ergersi paladini della giustizia, anche sportiva.
Burlesque, beati voi che avete ancora voglia di scherzare.
Il bisogno di normalità perché in questa situazione ci si sente inadatti, la normalità per non cambiare e tornare a dare la colpa al vicino, al diverso a qualsiasi cosa e a chiunque, tranne che a noi stessi. Quelli che credono che un terzo sia la maggioranza, quelli che hanno ricette, le ricette giuste e credono di poter trasformare una torta di merda in una torta di cioccolato, così a chiacchiere, le stesse che hanno usato per venderci una nazionale che fallisce la qualificazione mondiale o una rivoluzione che ci doveva portare sulla luna.
Una vita sospesa come se fossimo tutti in un acquario, come quei pesci che si muovono anche se non sanno davvero dove altro andare.
Dovremmo concederci a questo tempo di solitudine, di lunghe ore passate a rimettere mano ai pensieri, ai ricordi, ai residui di vita anche digitali che ci siamo lasciati alle spalle.
Questo è un tempo per lasciar riemergere quello che abbiamo seppellito nel passato, quello che abbiamo amato e poi lasciato andare, perché siamo anche la somma di tutto quello che abbiamo perso.
Una pandemia utilizzata come alibi.
Se fosse invece l’occasione per cambiare, perché costretti a farlo, a ripensare un movimento piegato ai personalismi, al “prima io” che ci fa tanto indignare quando sono “prima gli altri”.
Ci siamo scoperti fragili, indifesi senza un porto sicuro nella tempesta. Ci siamo accorti di avere amici che non pensavamo di avere e di quelli che nemmeno di fronte ad un pericolo letale comune, sono disposti a gettarsi alle spalle i rancori e gli interessi personali, per tenderci la mano.
Le squadre di futsal si sono scoperte più isole che arcipelago, un mondo dello sport che si è rivelato meno altruista e più egoista di quello che siamo disposti ad ammettere.
Nessuno deve restare indietro non è solo uno slogan, è una necessità di pensiero.
Ora però il tempo giusto è quello delle lacrime, del presente.
Del futuro, di quello sportivo ci occuperemo quando potremo andargli incontro, saldi sulle nostre gambe e nel nostro cuore.