Storie

Non andrà tutto bene. Andrà.

Non saremo mai più la nazione della bandiera tricolore, non saremo mai più uguali a prima e forse non lo siamo mai stati ad eccezione del cielo azzurro sopra Berlino.
Azzurro come il velo sull’orizzonte di chi alza gli occhi e affida alle poche nuvole dei Simpson i suoi pensieri, sperando non s’intreccino ai rami di una primavera che non arriva e anzi ci regala la neve come in un lungo inverno nucleare.

Pryat, il ticchettare di un contatore gaiger che non trova niente eppure è qui, nell’aria, dentro il sangue di qualcuno, forse di troppi ignari del pericolo, sulle maniglie della porta, sul tavolo, sulla finestra.
Non vi preoccupate andrà tutto bene, tutto è sotto controllo, non è mai esploso un reattore nucleare, non può esplodere, il partito dice che non può e nemmeno la scienza ha, subito una spiegazione. Reattore 4. Sarcofago.
Ci sarà un prima e ci sarà un dopo.
Usciremo e Noi, avrà un significato diverso.
Io, sarà declinato con più dolcezza e meno rabbia.
Non abbiamo bisogno del Voi.

La solitudine è il tempo delle domande.
C’è chi esce per non ascoltare le voci del cuore.
Chi esce, per non dovere una risposta alle domande scomode, quelle che nascondiamo in fondo al cuore.
La città che non dorme mai, quella che non si ferma mai e ora STOP.
Fermi tutti.

Sono come quel vecchio in ciabatte e cappotto, aggrappato al suo carello e alle notizie della carta stampata, alle voci di chi ha scelto come professione quella di cronista. Fatti, numeri.
Piegato senza essere sconfitto, grigio come il cielo, con lo sguardo rivolto a terra.
Testa bassa e pedalare, senza puntare il dito, senza cercare un capro espiatorio, qualcuno a cui dare la colpa.
Giaccone liso indosso e si riparte, perché quello che c’è, quello che non c’è non c’è .
Ricordo che rispondevo così quando mi chiedevano, com’è andato il compito in classe?
“Ho scritto di quello che sapevo, non potevo certo scrivere di quello che ignoravo”.
Testa bassa, con il culo a terra puoi solo scegliere di morire o rialzarti.
Non andrà tutto bene.
La conosco bene la retorica da libro Cuore, Edmondo De Amicis e la maestrina dalla penna rossa.

E’ colpa mia, nostra. Per una volta il dito puntiamolo nella direzione giusta.
La musica del carillon si è fermata ma noi abbiamo continuato a ballare, incuranti, indolenti.
Ora non ci sono abbastanza sedie per tutti.
Non saremo mia più così, perché aggrappati a quelli che avranno voglia di ripartire verso una direzione diversa, ci saranno ancora le piattole da social, i condottieri da balcone e falliti di successo. Avremo sulla schiena il loro peso, come Enea quello di Anchise, dovremo portare in salvo qualcuno ma non potremo farlo con tutti.

Siamo nei nostri occhi spaventati perché è giusto così, perché solo chi ha paura può trovare il coraggio di guardare oltre le macerie sociali.
La macelleria sociale,  come in qualsiasi paese sudamericano, perché siamo un solo pianeta, perché il COVID-19 non s’è fermato alle frontiere chiuse, perché ha usato la nostra innata voglia di stare insieme per isolarci.
Abbiamo paura, ci sentiamo soli, perché è facile dire il contrario ma crederlo, quello è una questione che afferisce il cuore e non la mente.

Saremo in silenzio un po’ di più perché ci siamo nutriti di strade dove risuonano solo le sirene, di furbetti con al guinzaglio la loro miserabile esistenza.
Abbiamo la pentola sul fuoco, aspettando gli amici, quella famiglia che ci siamo scelti e non c’è capitata per caso.
Il nostro pranzo racconta di una solitudine che abbiamo alleviato con una tecnologia senza comprenderla e l’abbiamo spesso condannata, troppo impegnati come siamo, a manifestare un pensiero che s’appoggia al bias di conferma come mai era accaduto.
Ci siamo ritrovati soli con le poche certezze di una vita spesa per lo studio, quello vero, fatto di pratica e dedizione, lontano dalla fretta di una comunicazione che si sincronizza con la pancia e non con la testa, diventa megafono di propaganda e amplificatore di rabbia.

La nostra vita in pochi oggetti, essenziali e allora tutta questa “roba” come la chiamavano i personaggi di Verga, quanto ci serve davvero?
Leggiamo, suoniamo e raccontiamo la nostra storia e aspettiamo l’alba del quinto giorno, quell’aiuto promesso che giunge da est.

Arriva la notte, le ombre sembrano più scure. Notte senza rumori, solo sirene e non quelle che chiamavano Enea ai confini del mondo. Diventano più lunghe e non puoi scappare, non c’è un posto fisico, siamo soli come non lo è mai stata la razza umana, animali sociali costretti a cambiare.
La luce del frigorifero, il rumore del suo motore, il fruscio di una tv sintonizzata su un canale morto.
Il miagolio del gatto, il suono delle fusa.
Usciremo dalla protezione illusoria di queste quattro mura e saremo tutti reduci, saremo tutti dei sopravvissuti, non importa se stiamo stati direttamente a contatto con il virus.
Il COVID-19 si è preso il nostro tempo, la nostra libertà, le persone che amiamo, le emozioni che ci animano.
Non andrà tutto bene.
Questa però non è una guerra, di quelle combattute tra eserciti, tra nazioni o ideali.
Questa è la fine di quell’illusione di avere il controllo, di essere più importanti del dna che ci rende unici come specie animale.
Questo è il fallimento dei “boomer” di una generazione in bancarotta ma troppo analfabeta per accorgersene, l’inganno di una connessione digitale che non può sostituire quella emozionale e di certo non sopperisce all’ignoranza, una cultura diffusa che si è confusa con la coltura.
Uscire per scoprire cosa è rimasto e la paura che non sia cambiato nulla, che “l’abbiamo scampata”, non “è successo niente” e che uno spritz e un abbraccio rimettano “le cose” a posto. Non lo sono mai state, al giusto posto, al momento giusto. Non c’è una soluzione miracolosa, una ricetta dell’uomo forte, il miracolo di un savio che ci salvi dall’impotenza di una società consegnata all’indolenza del “si è fatto sempre così”.
La notte acuisce il terrore che s’ignorino le macerie di un fallimento globale e locale, che si torni alla normalità quella che ci ha portato esattamente dove ci troviamo ora, rinchiusi a ignorare le domande, a fuggire dalle risposte e a sentirci indispensabili quando non lo siamo.
L’illusione che chiusi dentro siamo al sicuro, che isolati ci si protegga da un mondo che ruota intorno al suo asse e al suo sole a prescindere dal destino della razza umana e dai suoi confini tracciati su una carta.
Questo è il tempo dell’attenzione, ai dettagli, che una vita sempre con l’acceleratore premuto a tavoletta ci fa ignorare con troppa facilità.

Dovremmo guardarci negli occhi, per una volta sola, scoprire che non siamo nel sorriso ma nella storia, quella che nascondiamo pigiandola in fondo all’anima. La seppelliamo per non sentirci sbagliati e invece è un dono per qualcuno che sta soffrendo del tuo stesso male. Forse quello che pensavamo fosse bello non lo è davvero, forse i fiori più belli sono quelli che trovi mentre percorri la tua strada.
Per caso ti fermi sul ciglio ed è li, giallo, con tutti i petali stesi, piccoli ma intensi, spunta dall’asfalto, si è aperto la strada tra la roccia dura ed è venuto a cercarsi il sole.
La musica nelle cuffie.
“And if the night is burning I will cover my eyes for if the dark returns then my brothers will die and as the sky is falling down, It crashed into this lonely town and with that shadow upon the ground I hear my people screaming out”

“E se la notte sta bruciando mi coprirò gli occhi, perché se il buio ritorna allora i miei fratelli moriranno e mentre il cielo sta cadendo si schianta contro questa città solitaria e con quell’ombra sul terreno sento la mia gente urlare”.

Il cuore spremuto dal tacco di uno stivale lucido, la cadenza del passo sull’asfalto bagnato.
L’odore di cera da scarpe, il puzzo delle parole gettante al vento si mischia a quello del disinfettante ospedaliero, le bruciature da mascherina, le code interminabili, quelli furbi: “che ma sono solo, da solo che fa”, della risposta sempre pronta ma è quella sbagliata.
Attacco gli occhi alla finestra, sembra tutto come sempre ma non lo è, forse sono cambiato io, forse sono cambiati i colori del futuro.
Ho perso gli angeli nei miei incubi, come le luci gialle nella foschia, le vittime insospettabili, le ombre di cimiteri pieni di urla nel buio e quel desiderio che questa notte non finisca mai, che non merito l’alba.

Mi manca la speranza, dove sei. Non riesco a dormire stanotte, non li voglio quei sogni, ha lasciato che la notte s’appiccicasse a tutto come melassa putrida. La sento gridare nel silenzio questa notte, dove sei speranza?
Riesci a passare di qui, a scacciare il dolore, adesso.
Mi manca Natale, le luci, il vociare dei bambini, i problemi gravissimi tipo quelli di non trovare posto nel mio bar preferito.
Un tempo quello che sarà meglio di oggi perché peggio è davvero difficile riuscire ad immaginarlo.
Non andrà tutto bene ma sopravvivremo, per scoprire se siamo capaci di tornare a vivere.
Speranza, sei lì fuori, abbiamo bisogno di te, disperatamente.
Forse ti ho trovata, sparsa a pezzettini, in tante istantanee di vita, provo a metterle insieme e a trovarci dentro un futuro, migliore di questo.

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