“Non ti fai sentire mai“, “Non ci vediamo da una vita!“.
Lo so, perché ogni tanto sparisco. L’ho fatto anche da queste pagine, per mesi interi. È che non sono stata bene, ho preso una malattia che si chiama scherma.
La scherma è una malattia poco nota, eppure estremamente contagiosa. I sintomi sono inequivocabili: ne parli in continuazione, in qualunque conversazione riesci a usare i pretesti più improbabili per tirare fuori l’argomento; tutto, nelle tue parole, è ricollegabile alla scherma e non puoi fare a meno di sottolineare questa incredibile evidenza a chiunque ti capiti a tiro.
La scherma è quella malattia che ti porta ad allenarti tutti i giorni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ti porta a girare l’Italia e il mondo, macinando chilometri di autostrada, caffè in quantità industriali e sveglia in orari sempre più improbabili, che forse avresti fatto prima a non andarci proprio a dormire.
Ti porta a fissare gli impegni di tutto l’anno calendario agonistico alla mano, che se c’è una gara slitta tutto, anche l’impegno più improrogabile.
Ti porta a convivere senza sforzo con i lividi sulle braccia, roba del tipo che i tuoi amici sono seriamente convinti che o ti droghi come pochi o hai fondato un Fight Club segreto (anche perché la prima regola del Fight Club è che non si parla del Fight Club).
Ti porta a orari di lavoro che manderebbero in immediato fallimento qualunque azienda fosse costretta a considerarli straordinari, a dimenticare agilmente cosa sia un aperitivo o un giorno festivo.
E soprattutto, dalla scherma non si guarisce: non esiste cura o vaccino che tenga, una volta che ne sei stato contagiato non ti molla più.
Ed è così che mi sono ritrovata, dall’inizio del 2020, a visitare Roma più e più volte insieme alla squadra Teate Scherma, ammirando ogni volta solo l’architettura interna dei palazzetti dello sport.
A svegliarmi all’alba per sfidare il ghiaccio e il freddo per un allenamento, un ritiro, una competizione. Ad insegnare, ogni giorno con l’entusiasmo del primo, a contagiare senza sosta allievi di tutte le età. Ad ascoltare, a calarmi nei panni di chi si mette alla prova in una gara con tutto il carico psicologico che questo può comportare.
È stato bello e non lo cambierei con niente al mondo. E, alla fine, in appena due mesi, tutto questo ha anche portato qualche piccola soddisfazione dorata: un settimo posto (proprio a Roma, tra l’altro) nell’under 14, con Bianca. Un primo posto Assoluti con Eloisa. Un secondo posto con Stefano. Un terzo posto con Natalì. Un quinto, sesto e settimo posto con Lara, Alessio e Giorgio.
E tantissime emozioni da esordi, riconferme, ripartenze, un’Onda Verde inarrestabile che, forse, vale ancora di più di medaglie e coppe.
Sono malata di scherma, senza dubbio. Ed è una malattia bellissima.
