Storie

Basketball or Nothing

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Foto Nathaniel Brooks for The New York Times

Raccontare lo sport, si può fare in tanti modi.
C’è chi sceglie il profilo del commentatore tecnico, chi quello dell’esperto di “mercato” e chi infine si distrae spesso durante le partite attratto da qualcosa di particolare, da quelle storie nascoste dietro all’angolo, sistemate tra seggiolini lontani  dal campo, oppure prigioniere delle mura dello spogliatoio.
Cosa ci importa di Chinle, Arizona. Non sappiamo nemmeno dove si trova.

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Credit Nathaniel Brooks for The New York Times

Chinle, Arizona, Stati Uniti d’America.
Quattromilacinquecento diciotto anime, 4518 nativi americani, Navajo.
Un luogo dimenticato nel nulla del deserto dell’Arizona.
Troppi poveri, troppi ubriachi, troppi tossici.
Atterriamo a Tucson, Arizona.
Il commesso dell’autonoleggio non fa troppe storie per la nostra patente europea, la carta di credito è un documento più affidabile. Chiediamo una macchina con il cambio sequenziale. Via lungo la I-10 e poi seguiamo non appena appaiono le indicazione per la US-191 e da li si avanza sempre in direzione nord.

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Credit Nathaniel Brooks for The New York Times

Il paesaggio non cambia molto, piatto e desertico. Non impieghiamo molto ad entrare in quella che è la Nazione Navajo.
Una delle riserve nella quale i nativi americani furono relegati nell’ottocento alla fine di quelle che genericamente vengono indicate sui libri di storia come le guerre indiane.
Siamo quasi arrivati a Chinle quando sulla destra spunta questo enorme palazzetto.
Mattoni rossi e poi intonaco bianco. Settemilacinquecento posti.
Wildcat Den Arena.
Un tempio del basket.
Siamo arrivati.

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By Joe Burgess/The New York Times

Netflix ci ha regalato una storia di ordinaria straordinarietà.
Basket e nativi americani, più bassi del giocatore medio di High School in Arizona, con passati più difficili, più complicati. Un insieme omogeneo di casi umani, di vite ai confini della povertà.
Niente acqua corrente, nessuna figura paterna, madri che cercano di non restare sconfitte dalla vita e vite che sembrano segnate ancora prima di trovare una strada.
Li allena Raul Mendoza, una leggenda tra gli allenatori di basket, uno che nel 1988 ha avuto come assistente allenatore l’hall of famer Kareem Abdul-Jabbar. Ha scelto di inseguire un anello nel posto più improbabile, con un gruppo di talento pescato tra comunità che contano meno anime e più chilometri.
Questa è la storia di un gruppo di giocatori di basket di talento che affrontano altri giocatori di talento e vincono, quasi.

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Nathaniel Brooks for The New York Times

Battono avversari più alti, più forti e che provengono da comunità decisamente con meno problemi. Lo sport come passaporto sociale, lo sport come trampolino di lancio, lo sport come lezione di vita.
La disperazione e la povertà rappresentano la peggiore piaga sociale, nello sport diventano lo schiaffo che non ti fa arrendere.
Non c’è un luogo sicuro al quale tornare, non c’è in realtà un luogo al quale tornare. Puoi solo affrontare gli ostacoli e provare a superarli, puoi andare oltre per allontanarti dal suono assordante del dolore.
Questa è anche una storia che ha il sapore acre delle lacrime mischiato a quello della polvere del deserto, una storia di case con i muri spaiati, di genitori fieri e di genitori e basta. Una storia di orgoglio e di guerrieri, una storia di cadute e di speranza, una storia di basket e di vita.
Sei puntate, sui titoli di coda mi è tornata alla mente questa frase, Jim Valvano raccontava dell’incontro con il campione olimpico Bob Richards. Parole che a sedici anni hanno cambiato per sempre la vita del piccolo Jim.

“God must love ordinary people because he made so many of us. Yet, every single day, in every walk of life, ordinary people accomplish extraordinary things!”

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