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MFC19 – Giorno Uno e Mezzo

MFC19

Il caldo di fine Giugno non lascia mai scampo, a due passi dal mare forse ti salva quella brezza leggera che fa montare le onde del mare.
Inizia la Montesilvano Futsal Cup. La macchina è carica come se fosse un furgone invece è una Panda a metano, ecopower. Le scale da salire con tutto il materiale sono sempre troppo e il tempo sempre poco anche se arrivi con due ore d’anticipo sul programma.
Sugli spalti generazioni di futuri giocatori di futsal arrivano da tutto il mondo, letteralmente dai 4 continenti.
C’è chi arriva dalla Colombia per giocare e rappresentare un paese, uno diverso da quello stretto nella morsa dei narcos. C’è chi arriva dal Giappone per misurarsi con le realtà del vecchio continente e chi arriva direttamente dalla parte opposta del globo dove perfino l’acqua dello scarico gira in senso opposto. Numerosissima la rappresentativa australiana, che nella coda per le interviste siede accanto a giocatori dall’Ucraina, dalla Francia o da un paese a caso tanto qui sono tantissimi e potreste indovinare anche per sbaglio.
Dal corpo docenti del Dipartimento di Scienze Politiche di Perugia e dalla Riserva Specializzata dell’Esercito abbiamo reclutato la nostra traduttrice, che ci aiuterà con le interviste in attesa che arrivi Silvia a condurre i talk show serali.

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In campo c’è la finale del campionato italiano over quaranta, vi vorrei raccontare anche di questo ma oggi il passato ha poco a che fare con il futuro e se proprio devo scegliere preferisco guardare avanti piuttosto che volgere lo sguardo alle mie spalle.
Qualcuno dica a Junior che ogni tanto può anche far segnare gli altri, dominatore assoluto.
La mattina arriva troppo presto, sempre un controllo al materiale da portare, una colazione già in uniforme di rappresentanza e via, finalmente in un palazzetto che per raggiungerlo non devo prendere una tradotta trans-siberiana.
Pala Rigopiano e che tristezza si sono portati via anche le panchine.
Under 13 giapponese che batte 4 a 2 i pari età della Roma, ovvio che i nomi delle squadre quelli esatti non li ho ancora imparati però vi assicuro che sono uno spettacolo che merita più attenzione sugli spalti.

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C’è l’immancabile abbraccio tra l’allenatore e il suo numero dieci, tanti stop orientati, tanti giocatori che s’impegnano per posizionare il corpo in maniera corretta per ricevere il pallone e poi giocarlo in fretta.
Partecipano anche tante squadre di calcio, quello a 11 che si gioca sul campo largo e in erba vera anche se quella sintetica s’è presa molto dello spazio in cui prima non era ammessa. Lo sviluppo del gioco in spazi stretti si può simulare ma quando è l’unica scelta possibile, l’attitudine e l’abilità si sviluppano più in fretta.
C’è chi non riesce a organizzare un pulmino per una trasferta o una visita al fisioterapista e qui invece si muovono oltre 1500 atleti come se fosse la cosa più normale del mondo. Dietro le quinte si muovono gli indiscussi dominatori del foglio di calcolo, Microsoft se vuole che scrivo Excel dovrebbe pagarmi. Pensate a quelli che fanno fatica a organizzare il “calcetto” durante la settimana e c’è qui gente che gestisce un torneo internazionale con un minimo di automazione.

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Ci sono le dirette delle partite, quelle social, i talk show e i gol, tanti gol, trentacinque a qualcosa è stato uno dei risultati di oggi. Conta il punteggio, certo altrimenti non se ne terrebbe conto, c’è da imparare qualcosa anche dalle sconfitte, senza retorica, perché perdere non piace a nessuno e le lezioni che non digerisci con facilità non le dimentichi, per quel sapore amaro e quella rabbia agonistica che ti lasciano addosso.
Per un giorno mister Frog è stato sconfitto, ero a guardare un “Australia” – “Colombia” under 11.
Se non fossi così pigro e con poco tempo a disposizione forse questo pezzo della storia dovrei scriverlo in inglese.
Nella rappresentativa australiana c’è Erin Beard, l’unica bimba in campo.

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Alza il braccio e chiede palla, fa l’elastico, stoppa di suola e riparte, randella l’avversario quando c’è bisogno e corre a coprire in marcatura senza lasciarsi saltare.
Indossa la maglia numero tre, le scatto la foto e la mando lontano, fino in Belgio.
“La dovresti vedere, non ha paura di niente e può giocare”.
Gioca con e contro i maschi, contro i pregiudizi che forse non ci sono nel suo paese ma ci sono sicuramente nel nostro.
Erin si sta semplicemente divertendo e i compagni di squadra dovrebbero passarle più spesso la palla, perché si muove con cognizione, è spesso smarcata e sa usare entrambi i piedi.
Lei è semplicemente Erin, per me e in fondo anche un po’ per Federica, guardarla giocare è l’attimo che giustifica tutto.

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Per la prima volta in questa lunga stagione sportiva ho guardato una piccola donna giocare e non c’era nulla nascosto sotto il tappeto, nessuna storia torbida, nessun impiccio di denaro. Nulla.
Siamo andati via alla fine del primo tempo, meglio così ho pensato se avesse segnato un gol sarebbe stato troppo bello per essere vero ma anche il finale ideale per una piccola storia.
Ci vediamo sui campi Erin e grazie perché sei così, semplicemente.

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