Storie

L’arte di vincere

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Le vittorie in rimonta gli inglesi le chiamano “come from behind” e sono la parte emozionante di qualsiasi sport di squadra. Funzionano però se sei sfavorito, sei perdi di 25 punti contro la squadra favorita nella partita più importante dell’anno e rimonti per vincere in overtime e sbatti in faccia agli avversari 28 punti senza che riescano a fermarti.

Se sei il Barcellona, quello vero di Guardiola, con Xavi e Inesta, David Villa e Messi e alla fine del primo tempo il tabellone della finale di Champions indica 1-1 con il Manchester United di Park Ji-Sung e Fàbio, ecco giocatore blaugrana, stai facendo una figura di merda. Alzerai poi la Coppa dei Campioni al cielo di Londra ma non era quello che eri venuto a fare in quella serata a Wembley. Eri venuto a dominare a mostrare al mondo che i migliori, sul palcoscenico più importante non si nascondono, non confidano nella qualità di una panchina lunga. Entrano e impongono il loro gioco. PUNTO.

C’è maglia di Totti in un angolo della mia memoria, dell’unico colore possibile, quello giallorossa, con quel cognome stampato sopra che non sopporto perché poteva essere il più grande al mondo e ha scelto di essere il più grande di Porta Metronia. Uno che poteva indossare il numero di Di Stefano ma ha preferito continuare ad indossare il numero di Giannini. Una sofferenza che da tifoso avversario ho vissuto vedendo la 10 della Juventus indossata da Magrin.

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Se vincere fosse semplicemente alzare una coppa al cielo, un piatto d’argento o un trofeo qualsiasi non emozionerebbe nessuno. Non importerebbe a nessuno sapere chi ha battuto chi, semplicemente segnando più gol.

Vincere è maestria, quasi arte.
Vincere è essere Steven Gerrard.
Istambul. Perdi tre a zero e quando esci per il secondo tempo sei il primo a farlo, alla testa della tua squadra. Perché giochi per “Jon-Paul”, tuo cugino che avrà per sempre 10 anni. Schiacciato tra i corpi di altre vittime e la rete metallica di Hillsborough, in un disastro che ha cambiato per sempre la faccia del calcio inglese, dei suoi stadi, delle sue tifoserie e della tua vita. Perché sei cresciuto nella Kop all’ombra della leggenda di Bill Shankly. “Molte persone pensano che il calcio sia una questione di vita e di morte. Vi assicuro che è più serio di questo”.

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Leeds. Autonominata “Motorcity of the seventies”. Don Revie e il suo Leeds dominavano in patria e quasi anche all’estero eppure li odiavano tutti. “Dirty Leeds”, così li chiamavano. Lo erano. Sempre pronti a protestare con l’arbitro, oppure a bagnare con acqua gelata gli spogliatoi della squadra ospite per poi lasciarli senza riscaldamento. Quelli dei dossier sugli arbitri, delle risse in campo delle spinte e delle espulsioni, la prima in assoluto a Wembley durante il Charity Shield, fu di William Bremner, il capitano. Si, il capitano del Leeds United.

Quando il Derby County di Brian Clough pose per sempre fine all’epopea del Leeds, furono acclamati da tutta l’Inghilterra calcistica come dei liberatori da quel calcio fatto di squalifiche, sputi e arroganza. Avevano liberato il calcio inglese dalle palle lunghe e dalle gomitate lontano dal gioco, dalle spinte all’arbitro e dai gol rubacchiati nel fango. Da una dirigenza arrogante e inetta capace di nascondersi all’ombra di un gruppo di giocatori lasciati liberi di fare come volevano. Intorno alla squadra troppi lacchè e giornalisti, impegnati a cercare di sedersi a tavola invece di raccontare alla città quello che accadeva dentro e intorno a quel club. Troppi pagliacci professionisti dentro e fuori dal campo.

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Leeds. La città che Stanley Kubrick scelse per ambientare il suo “Arancia Meccanica”. La città della lana e della manifattura. Dopo retrocessioni e fallimenti e brevi istanti sotto i riflettori del calcio che conta, il Leeds United non si è più ripreso e forse è meglio così. Che sia una lezione per tutti quelli che cercano una scorciatoia per la vetta dello sport. Ecco che una storia seppellita tra le pieghe di un ipotetico almanacco del calcio si fa strada anche in quello moderno. L’eco dei quattro fallimenti in otto anni del Bari Calcio ancora non si sono sopiti e il Chievo viene condannato per le plusvalenze false del suo presidente mentre il presidente del Palermo viene condannato a rifondere i fondi distolti dalle casse della sua società nel tentativo di evadere il fisco.
Federica è qui dietro alle mie spalle, credo stia leggendo preoccupata queste righe.
Avrei voluto raccontare la partita ma non c’ero, sono uscito da quel palazzetto piazzato dietro al benzinaio e l’ho seguita aggiornando con il tasto F5 la pagina dei risultati, almeno durante il primo tempo. Avrei avuto poi una cronaca da leggere, qualche appunto dai blog di appassionati e una pagina intera l’indomani sul Corriere dello Sport.
Domenica ero a Terni.  Supercoppa Italiana. Futsal Femminile.
Nel piazzale le macchine vuote, il bar con un continuo andirivieni di persone ma mai davvero pieno.

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Penso a Silvia.
“Ma non accedente il navigatore?” dal sedile posteriore la giornalista con i capelli rossi, quella con il tesserino e l’iscrizione all’albo, si chiede preoccupata.
“Non c’è bisogno, sai siamo venuti qui un po’ di volte. Guarda hanno riaperto anche il tunnel.”
Ecco la città che non puoi spiegare, che fatichi a capire fino a quando non impari a viverla.
Nicola arriverà più tardi. Da lui porche ora prima avevo cercato di capire quanti disegni da colorare c’erano nel libro di Paolo Condò scritto per Francesco Totti. Camminando dentro al Circolo Lavoratori Terni ho chiesto com’è essere l’allenatore di una squadra che non vince mai niente. Com’è scegliere d’insegnare questo sport mentre tutti invece cercano di vincere. Questa però è la storia per un giorno diverso, uno meno cinico, meno spigoloso.
Ho potuto abbracciare forte Stefano, con la sua sciarpa al collo, le sue ferelle nel cuore e la fede incrollabile nello sport, tra tutti proprio nel futsal femminile. Finalmente fuori dal letto d’ospedale e al suo posto, sulle gradinate a fare il tifo.
C’era Gabriel e con lui sedute al tavolo Marta e Alessia, pezzi di un ieri recentissimo che diventano oggi senza nemmeno far asciugare la vernice sui ricordi.  C’è Giulia, la maglia numero 14, la fuga sulla fascia.
“Domenichetti è scoppiata si dà al calcetto” e invece è ancora lì sul campo verde grande ad inseguire un sogno e non importa l’anagrafe anche se poi il dolore alle gambe ti ricorda che non sei più la ragazzina della Torres.
Rumore di bicchieri, di tazzine da caffe e di sedie trascinate.

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Photo Credit La Roby https://www.flickr.com/photos/38558167@N03/

Qualcuno mi riconosce e mi chiede

“cosa ci fai qui?”

indicando poi vagamente nella direzione del palazzetto.

“Non posso fare il mio lavoro oggi”

il mio primo lavoro vorrei aggiungere ma sarebbe dare importanza ai pagliacci come amava ripetere Len Shackleton. “Pensi che abbia bisogno di google per cercare di cosa parla, la differenza è proprio questa. Io quel libro l’ho letto davvero”. Clown Prince of Soccer.
C’è sempre chi ci prova con la barista, chi chiede uno sconto come al mercato e chi come me aspetta la fine di una partita che è stata come non doveva essere.
Stanotte c’è chi vince e chi alza la coppa e probabilmente non sono la stessa persona. C’è chi perde e alza la coppa e chi perde ma si alza lo stesso a festeggiare, perché poteva quasi vincere, un po’ come il detto “se mia nonna aveva le ruote, era una bicicletta”.
I viaggi di ritorno dalle trasferte sono lunghi viaggi fatti di autogrill deserti e  di lunghe notti. Hanno il suono delle portiere sbattute con rabbia e del cicalino del telepass. Sono piene di frasi spezzate, gettate in faccia per cacciar via la delusione. Invece non va via e s’infila nelle fibre dei vestiti si colora di giallo e nero e ruba le parole di questa storia che è poi anche una storia d’amore quindi per sua natura non è governata da nessuna logica. “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Non perché debba citare Pascal così a caso, semplicemente se qualcuno ha espresso un concetto così bene è inutile cercare nuove parole altrove.
“Buonanotte, ci vediamo domani” ma è quasi l’alba di quel domani.
Salgo le scale, la chiave nella toppa e il gatto bianco che salta fuori dal buio per salutarmi e sono troppo stanco perfino per dormire e russare. Butto via lo zaino mi sistemo sul divano compongo 200 sul telecomando. C’è la replica di River – Boca, ma scorro i canali veloci e mi fermo quando vedo il faccione triste e solcato dalle rughe di Spencer Tracy. Il vecchio e il mare.
Una voce fuori campo.
“Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono.”
Già.

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