Il palazzetto è a due passi dall’ospedale, vicino ad un parco che durante l’estate frequentiamo per lanciare una palla da football americano.
C’è qualcuno che stura un tombino, chino in terra.
Un freddo pungente che odora di neve e castagne.
Non riesco nemmeno ad entrare, le porte sono bloccate, non m’importa davvero nulla del risultato della partita eppure voglio entrare a guardarla.
Sono seduto su un seggiolino blu.
Mi sento come quelli a cui chiedono del vicino che impazzito ha massacrato la famiglia e risponde “avevo sentito delle urla ma non ho chiamato la polizia”.
Quello che accadrà al fischio finale è colpa di tutti, anche nostra che siamo seduti sugli spalti o a bordo campo a raccontare questo sport.
Tutti sapevamo e nessuno ha parlato, per convenienza e per quel pizzico di timore che ci rende pavidi.
I tifosi, quelli che alle 15.30 d’un mercoledì qualsiasi si trovano qui per fare il tifo non sanno nulla e non si spiegano quello che sta accadendo sul campo. Li ascolto parlare di flessione fisica, di questioni tecniche e tattiche.
L’ingenuità dell’amore, spesso mal riposto.
La palla fa un rumore più forte, copre le esultanze abbozzate e i sorrisi stentati.
Certi abbracci poi di solito li vedi a fine partita non prima del fischio d’inizio.
Via da questa partita mi porto gli occhi pieni di lacrime di Claudia e quelle parole: “Non doveva finire così…”
Non c’entro quasi nulla eppure mi sento in colpa.
La guardo e sento la voce di mio padre che da bambino mi ripeteva:
“Le donne non si devono far piangere mai”
Voi, tutte, donne meravigliose di sport siete come una rosa rossa schiacciata nel mezzo d’un libro di poesie d’amore di Pablo Neruda.
Oggi forse vi ho deluso, sicuramente ho deluso me stesso.
Guardo verso la tribuna opposta e nessuno sembra mostrare vergogna per quello che è il più lacerante disastro sportivo di cui sia stato direttamente spettatore.
Non è solo una questione di denaro, che qualcuno ha promesso.
Non è solo una questione di dignità, che probabilmente qualcuno non ha.
Non è solo una questione di rispetto, che forse a qualcuno manca.
È strappare un sogno, quello che ti teneva aggrappata ad un campo di periferia spelacchiato in una afosa giornata d’agosto e ti spinge fino alla Serie A, titolare di una squadra costruita per vincere tutto, capace di vincere tutto.
Vorrei non averla mai dovuta raccontare una storia così, vorrei non sapere dei mesi passati aspettando quel denaro che vi spettava per lo stupendo lavoro svolto sul campo, per lo spettacolo di vedervi giocare.
Non finisce certo il mondo.
Domani tornerete a giocare, altrove con maglie diverse e in squadre diverse.
Saremo più soli a Bari tra solo una settimana, una “final seven” che a scriverla fa già schifo.
Perché senza battere voi non è la stessa cosa, certo non si vince un titolo per abbandono ma si macchia il ricordo di una vittoria.
Siete libere oggi, di tornare a sorridere, a giocare per qualcuno capace anche di retribuirvi per lo spettacolo che offrite sul campo.
Oggi vi lasciate alle spalle una maglia che avete trattato con rispetto.
“Ormai non l’amo più è vero, ma forse l’amo ancora. Amare è così breve, e dimenticare così lungo.” Pablo Neruda.