Odessa, Texas.
Terni, Umbria.
L’anima nomade mi porta ad asserire convinto che: “non è poi così lontano, sono solo due ore di viaggio”, poi però diventano quattro perché devo tornare a quel posto che gli altri chiamano casa.
Il bar prima di svoltare, quello con i panini favolosi e il gatto ciccione e siamo arrivati a Terni.
Il lungo muro grigio scuro e la scritta
“Acciai Speciali Terni”.
Guardo i visi di chi entra ed esce dall’acciaieria, le spalle un po’ curve di chi entra, lo sguardo stanco ma sollevato di chi esce.
Ho come l’impressione che la città sia avvolta in quella disillusione e quella passione tipicamente operaia, di chi è abituato a misurare la vita con una unità di misura diversa, più essenziale.
Dov’è che ho visto facce simili a quelle?
Perché continua a essere quella, l’unica immagine che si ferma nei miei ricordi?
La risposta è in una storia, di passione, di rivalsa, di successo e depressione.
Per un attimo ci trasferiamo nella Contea di Ector, in Texas, Stati Uniti.
Odessa, una città di poco più di centomila abitanti, persa nella sconfinata pianura texana.
Città dura, industriale, inevitabilmente costretta nel ciclo di depressione e espansione imposto dall’oscillare del prezzo del petrolio. Città senza compromessi, come la sua passione per lo sport.
Dov’è che ho trovato una storia simile?
Terni, Umbria, Italia.
La città di San Valentino, il patrono degli innamorati, anche dello sport in fondo ci si innamora senza una spiegazione apparente.
“La Città d’Acciaio” come Manchester, solo che qui se ti guardi intorno trovi la Storia affondata in ogni lembo di terra. Il tempo in questa città, lo puoi misurare con un archeologo.
La Ternana, la squadra di calcio, è avvolta da una passione che è difficile trovare, mi ricorda quella che avvolge la squadra pugliese del Tricase, che stipa tremila tifosi ad ogni derby in mezzo a mille fumogeni che nemmeno nei palazzetti turchi del basket. Scusate, sto divagando.
Terni è quella città capace di riempire un palazzetto da 500 posti per vedere il calcio a cinque femminile, futsal vero, di Serie A, pur sempre però, uno sport minore.
Capace di festeggiare una salvezza risicata in Serie B della compagine maschile di calcio a 11, come una delle undici Coppe dei Campioni del Real Madrid.
Se la vostra risposta a questo sconfinato attaccamento ai colori è: “perché in città non c’è niente”, potete anche smettere di leggere, Capitan Ovvio vi liscia i baffi.
Se state ancora leggendo, vi porto in viaggio con me, stringete bene la cintura di sicurezza.
Spostiamoci in Spagna, nella capitale iberica.
Vi siete mai chiesti perché in una partita tra il Real Madrid e l’Atletico Madrid, inevitabilmente tutti gli spettatori non tifosi finiscono per fare il tifo per i “colchoneros”?
Una squadra che ha come soprannome i materassai, come divisa sportiva ha un tessuto che avete visto nelle televendite di Mastrota e una filosofia di gioco ispirata dal suo allenatore detta “il cholismo” che in sostanza è picchiare come fabbri chiunque osi avvicinarsi alla metà campo difensiva.
Perché non fare il tifo per il “Galacticos”, squadra piena di campioni strapagati, con puntualità svizzera da Florentino Perez, talenti assoluti che uniscono in un binomio devastante tecnica e potenza fisica?
Nessuno prova simpatia per un gruppo di atleti con contratti milionari, presi a caso e messi insieme per vincere, con un allenatore messo ad occupare un posto libero in panchina e uno vacante in sala stampa.
Un declino simile a quello vissuto dal Barcellona quando ha scelto di mettere al centro della sua storia i suoi fenomeni sportivi acquistati a suon di milioni, grandi campioni strapagati e scegliendo come accompagnatore e allenatore Valverde, si appunto chi diavolo è Valverde?
In Catalogna avevano costruito il racconto sportivo perfetto. Avevano in Guardiola il profeta di un calcio unico “il tiki taka”, figliol prodigo tornato ad allenare un gruppo di grande talento, cresciuto a cavallo di una cantera florida e di un giocatore unico pescato in Argentina e restituito, curandolo da una grave affezione, al calcio mondiale, Lionel Messi. Avevano Iniesta, la bandiera di una regione, Piquè il ragazzo che dalla strada arriva a sposare la star del pop Shakira. È bastato dimenticare per un attimo la loro storia ed acquistare Neymar per rovinare tutto. Continueranno a vincere certo ma senza quell’aura mistica di squadra del popolo.
Accompagnatemi ora a prendere l’aereo, decolliamo dall’ Adolfo Suárez di Madrid per atterrare in Texas.
È autunno, la stagione del football americano scolastico è in pieno svolgimento.
Con una macchina a noleggio viaggiamo in direzione Odessa.
Venerdì sera, la città è deserta, non c’è un esercizio commerciale aperto, nemmeno quelli aperti 24 ore al giorno, c’è un cartello che recita “gone to the game” e poi un altro e ancora un altro. Tante stelle nel cielo e l’orizzonte basso sembra non finire mai.
C’è una palla di luci sulla sinistra in mezzo al nulla, quella è la nostra destinazione.
Il Ratliff Stadium. Diciannovemilatrecentodue posti a sedere.
Troviamo a fatica un biglietto.
Un monumento alla passione di una città per la sua squadra, un simbolo di riscatto per tutti gli uomini e le donne di Odessa. Un monumento ai Permian Panthers, una squadra di ragazzi delle scuole superiori capaci di vincere il titolo svariate volte del Texas 4A e 5A (la A il bacino di popolazione da cui attinge la scuola, più A ci sono maggiore è la competizione), pure attingendo da un gruppo di possibili giocatori più ristretto.
Una piccola città tenuta insieme da una squadra che si trasforma nel collante emotivo che tiene insieme una comunità.
In questa città perduta in mezzo al nulla è nato forse uno dei racconti sportivi di più grande successo e controversi allo stesso tempo di sempre.
Friday Night Lights: A Town, a Team, and a Dream.
Trovatelo, prendetelo in prestito, leggetelo.
Cosa alimenta la passione per lo sport?
Una storia, la nostra storia, quella che vediamo riflessa sul campo, nel mezzo di una giocata e nei sacrifici che gli atleti fanno per avere successo.
Per una strana alchimia partecipare con passione ad un evento sportivo trasferisce dell’energia dagli spalti al campo e viceversa, siamo innamorati di una storia e non l’abbandoneremo mai.
Seduto sugli spalti del Pala Divittorio, tra le lamiere del soffitto e il gommato sul campo, il pubblico inizia ad assieparsi intorno a me.
Sono qui perché c’è un pezzo della loro storia anche se in campo ci sono ragazze che vengono da tutte le parti del mondo. C’è Ludovica la ragazza della porta accanto, cresciuta tra l’acciaieria e le montagne. C’è Pamela il viso duro della squadra, la determinazione e la tenacia. Renata è l’estro e la fantasia, il pezzo di sogno e il raggio di luce che buca la cappa dei fumi dell’altoforno.
Ecco questo è raccontare lo sport, è aiutarlo a crescere, farlo diventare importante per una comunità.
Ci sono storie così in tutti i palazzetti d’Italia.
Semifinale Scudetto – Ritorno – Terni 2017
"Fai parte di qualcosa, partecipi e il “casino” che fai è altrettanto importante perché se non ci fossi tu e quelli come te a chi fregherebbe veramente?" Un pomeriggio trascorso tra gli spalti e il campo, nel lato rossoverde del Pala Di Vittorio, "tra le braccia alzate, i cori e quella partita che potrai solo intravedere, accalcato sulla balaustra o in piedi davanti al tuo seggiolino". La Ternana Calcio Femminile vissuta dagli spalti.#futsal #tifoseria
Pubblicato da Any Given Sunday su martedì 23 maggio 2017
La ragazzina che dal cortile di casa arriva a diventare il capitano della nazionale, chi si divide tra il lavoro e lo sport, chi non s’arrende e con un pallone sotto braccio e un sogno parte da una favelas senza luce e acqua corrente e diventa la più forte giocatrice al mondo.
Il poliziotto e i suoi lacci benedetti, le storie di mamme e gol, chi scrive poesie e corre veloce sulla fascia.
è questa la frase che mi torna in mente quando penso al futsal femminile, alle storie di sport.
Raccontare lo sport è più faticoso, più doloroso e ti ruba un pezzo di vita.
Ci vuole molto meno a scrivere: Renata, voto…chissenefrega.
Non sono capace, forse potrei scrivere delle pagelle veramente “ignoranti”.
Bobo Vieri rispondendo alla domanda di un giornalista: “cosa pensi delle pagelle delle partite”, rispose laconico:
“Avere un voto da chi non è capace di fare quello che faccio io è chiaramente comico, un po’ come se la maestra che ti mette il voto al tuo tema d’italiano non sapesse scrivere”.
Preferisco leggere Soriano, ascoltare Buffa raccontarmi una storia o stare in piedi in una curva, possibilmente la Kop del Liverpool, che preoccuparmi di dare un voto ad un gesto sportivo che non sarei mai in grado di replicare.
Ho impiegato circa millecinquecento parole terminando con il dubbio di non aver davvero raccontato quello che volevo. Le parole hanno questa pessima abitudine, prendono strade che chi scrive spesso non anticipa. Per me, per noi, lo sport è un racconto, una emozione, una storia di vita.
L’altra notte ho visto un panchinaro che meditava di ritirarsi dallo sport professionistico solo 12 mesi fa, collezionare in stagione solo tre partite da titolare, a 29 anni vincere il Lombardy Trophy e regalare alla sua squadra il primo Superbowl della sua storia. Nick Foles, MVP.
Non importa quello che accadrà domani, oggi la sua storia ci ha regalato una speranza che dal campo s’è irradiata sugli spalti e poi è tornata giù moltiplicata. Possiamo farcela, non importa quanto ci sembra impossibile.
Eagles 41 Patriots 33, il risultato questa volta lo sapevo a memoria, è pur sempre uno sport competitivo.
C’è un pezzo di calcio anche in questa sera di football americano.
Sugli spalti del US Bank Stadium di Minneapolis si stagliava la chioma biondissima di Julie Beth Johnston. centrocampista difensivo della nazionale americana femminile di calcio Campione del Mondo nel 2015 e dei Chicago Red Stars. Suo marito Zach Ertz ieri notte ha finalmente colmato il gap sportivo che lo sperava dalla moglie, ha vinto “qualcosa” in carriera, anche lui è “Campione del Mondo”.