Storie

Quel campetto di periferia

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“Sara, 9, grazie!”

È già, sono una malata di calcio anche io. Qui sono a casa no?
Ho 24 anni, vivo nel cuore dell’Italia, in Umbria.
Non vengo da una grande città e forse è proprio per questo che un piccolo rettangolo verde è diventato il mio mondo.
La prima volta che ho messo piede in quel campetto è stato per via di un torneo di calcetto, uno di quei tornei paesani che nessuno guarda, almeno non quelli femminili: era un campo vecchio, il peso degli anni si vedeva, di verde era rimasto poco niente, forse solo l’erba alta che lo circondava.
Quattro grandi fari intorno, una recinzione arrugginita, due porte solitarie che aspettavano li, magari un goal, un pallone, qualcosa che non le facesse sentire poi così sole.

Ero arrivata per prima. Ho camminato un po’ lungo la linea laterale, scorrevo con gli occhi quella linea bianca un po’ sbiadita, come una equilibrista sul filo del rasoio. Non c’erano palloni ancora, però c’era il campo: chissà quante partite, quante urla, quanto sudore su quel sintetico finito, quante storie e quante delusioni avevano avuto quello scenario. Era bello essere lì, pensare un po’, sognare di giocare, perché si, è stato sempre il mio sogno nel cassetto.

Mi avevano trascinato a quella partitella, non avevo mai giocato con una squadra, il massimo era stato cimentarmi in tedesche infinite l’estate in piazza con gli amici o giocare con mio cugino con 40° all’ombra, sull’asfalto.
Non ero una calciatrice, però il pallone mi piaceva, mi era sempre piaciuto.
Dicevano che ci sarebbe stata una squadra femminile quel giorno, abitavo lì vicino ma non ne avevo mai sentito parlare: la figuraccia era dietro l’angolo. Dopotutto però era solo un torneo dei rioni, nessuno avrebbe riso di me.

Iniziamo a giocare, appena tocco il pallone mi sento strana, nemmeno ricordo cosa stessi facendo, però veniva tutto naturale, era tutto spontaneo, come se quel pallone fosse sempre stato lì, tra i miei piedi.
Non so dove andare, nel dubbio mi butto su ogni pallone, con i piedi, con le caviglie, con le ginocchia, cerco di prenderli tutti. Di corsa fino alla porta, poi no, rientro di corsa verso la mi area, recupero un pallone, lo perdo poco dopo. “Corri, corri e basta. Non pensare.” Non ho tempo nemmeno per ragionare. Mi danno il pallone, area di rigore, nemmeno alzo lo sguardo, o la va o la spacca, tiro di piatto, cerco di tenerla bassa, la porta era davanti a me, non la vedevo ma la sentivo, sesto senso? Non lo so. Calcio più forte che posso, poi alzo lo sguardo.

Il pallone era passato sotto le gambe del portiere, era entrato come una chiave nella serratura, preciso. Dai, non sono stata io… esultanza alla Ronaldo in finale di Champions. Ci sta, ero l’ultima arrivata, avevo segnato, attimo di gloria.
Continuiamo, non sento nemmeno il respiro affannato, corro e basta, non mi importa del resto, è solo una partitella dopotutto.
Esco un po’ per riprendere fiato, non ero pronta fisicamente, correre non mi era mai piaciuto, però farlo dietro ad un pallone era diverso, come un bambino che vede una caramella davanti a sé: dolce, gustosa, colorata… si, il pallone è un po’ come una caramella gommosa. La vuoi e basta.

Due goal non bastano però, l’altra squadra riesce a pareggiare: azione semplice che parte con un pallone recuperato a centrocampo, passaggi veloci, il pivot da solo contro il portiere, riesce a beffarlo, il pallone da una parte e lui immobile al centro della porta, quando il tiro è forte e preciso c’è poco da fare.
Finiamo in parità, ci vogliono i calci di rigore.
Prendo il pallone, lo rigiro tra le mani, lo metto a terra sul dischetto, prendo la rincorsa e calcio.
La fortuna del principiante non è dalla mia, calcio alto sopra alla traversa: corpo buttato all’indietro, tiro troppo forte e poco preciso.
Quella partita non finì con una vittoria, era stata la prima sconfitta in una partita di calcetto, prima e ultima, non ero una giocatrice dopotutto.

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A fine partita però è successo qualcosa che ho stampato in mente: il capitano della squadra viene davanti a me sorridendo e mi fa: “Giochi bene, te la cavi, perché non provi a giocare con noi?”. Era una ragazza alta, corporatura più grande della mia, aveva il fisico da difensore, dentro al campo non mi ero accorta di lei, ero troppo concentrata a giocare, quando mi è venuta vicino però ho potuto notare i tratti che prima mi erano sfuggiti: occhi castani, capelli scuri, corti da una parte e lunghi dall’altra, erano tirati su da una fascetta nera.
Aveva la faccia da capitano, solo dopo avrei capito che non ne aveva solo la faccia ma anche la grinta e la convinzione.

Settimo cielo.
E chi se lo aspettava, ero contenta di aver fatto bella figura, nessuno aveva riso di me, era già un successo.
Il giovedì della settimana successiva iniziava la preparazione, volevo esserci, a tutti i costi, le litigate con i miei non potevano essere un ostacolo: “Devi studiare, devi pensare all’università, è uno sport da maschi”, mi hanno urlato queste cose fino allo sfinimento.

Mio padre è un uomo alla vecchia maniera, un lavoratore, con il peso della famiglia sulle spalle e la fatica di anni di lavoro a colorare i capelli quasi bianchi.
Mia madre è sempre stata indipendente, un carattere forte, una vita di lavoro, tante responsabilità, un ufficio da mandare avanti e una famiglia a cui pensare.
Non sono persone che badano tanto ai fronzoli, per loro nella vita bisogna sempre prendere una strada, tante deviazioni non sono ammesse, beh il calcio era una deviazione e di sicuro non era quello che volevano per me.

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Amavano seguirmi nelle gare di Karate, mi hanno seguita in quelle nazionali, in quelle internazionali, mi hanno accompagnata a quelle vicino casa e mi hanno sostenuta quando a Venezia ho affrontato anche avversarie di altre nazioni; il karate era eleganza, una disciplina pura, lì non c’erano preconcetti, non c’erano convinzioni sbagliate, era il mio posto sicuro, ma soprattutto era uno “sport” che a loro sembrava giusto per me.

Le cose però cambiano, cambiano le persone e cambiano le esigenze.
Ho sempre amato il calcio, quella era la mia occasione, anche se significava andare contro di loro.

Non mollo.
Mi faccio prestare calzettoni, pantaloncini, scarpini; 14 anni di karate mi avevano lasciato un karategi e una cintura nera, ma di sicuro non un paio di scarpini.
Sono state le settimane più estenuanti della mia vita. Correvamo in una pista per aerei vicino al campo, alle sei della sera per un mese ci trovavamo tutte lì. Non era il luogo migliore dove correre, ma l’unico. Era proprio vicino al campo, solo un cancello separava le due aree, vicino alla pista c’era anche un garage per gli aerei, charter ovviamente, e forse qualche elicottero. Correvamo intorno al centro, dove non passavano gli aerei, il sentiero era oramai delineato, formava un ellisse: c’erano buche ovunque, tanti fiori, margherite soprattutto e dei piccoli pilastri in plastica che delineavano la pista. Era bello correre lì, settembre era il mese ideale, si sentiva ancora il profumo di estate ma il sole iniziava a scendere più in fretta, quasi a ricordarci che l’inverno si avvicinava, e con lui l’inizio del campionato. Gambe piene di graffi, erba alta mezzo metro, insetti, caldo, fatica, sudore.
Correvo, correvo più che potevo, volevo dimostrare qualcosa a qualcuno, o forse a me stessa, era una avventura.
È stata dura, tanto dura. “Fartlek” era la parola maledetta, noi oramai lo chiamiamo “infartlek”, e vicino all’infarto penso che ci sono arrivata tante volte. Contavo le serie, contavo i secondi con la mente, correvo e cercavo di non accasciarmi a terra, le gambe erano a pezzi, la testa scoppiava, il fiato mancava, il cuore a mille. Una serie era andata, sotto con la prossima. Quando il sole iniziava a tramontare sulla pista, un leggero venticello si alzava e il mister fischiava, finalmente tornavamo al campetto, lì c’erano i palloni che aspettavano, si giocava un po’.
Quante volte avrei voluto mollare, dopo le cadute, il sangue che usciva dalle ginocchia, la fatica per alzarmi dal letto la mattina dopo, era tutto un pacchetto, prendere o lasciare.
Al terzo giorno di preparazione già avevo comprato i miei primi scarpini, la prima notte ci ho dormito, dovevo allargarli, il giorno dopo li avrei usati subito. Erano belli, davvero belli: rossi e neri, fondo da esterno rosso, lacci neri, maculati con le strisce bianche tipiche delle Predator nella parte posteriore. Erano qualcosa di solido, tangibile, qualcosa che potevo toccare e che rendeva tutto più reale… non era più solo un sogno!

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Una sera il mister alla fine dell’allenamento ci ha detto che avremmo giocato in un torneo, un triangolare con squadre che non avevo mai sentito nominare, era normale, ero sempre l’ultima arrivata. Avremmo giocato su un campo a 50 km da noi, su un impianto più nuovo e sicuramente su un campetto meno consumato del nostro. Le altre erano tutte entusiaste, conoscevano già le avversarie, si erano già scontrate nei campionati precedenti, per loro era una partita come un’altra.
Per me no.
Quella sera sono uscita dallo spogliatoio, capelli bagnati e borsone in spalla, già avevo iniziato a fantasticare su avversarie, campo e partita. Avevo una settimana di tempo per prepararmi al meglio, volevo dimostrare al mister quanto valevo e che soprattutto ero pronta per giocare anche in campionato.
In fondo un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso e il mio sogno era appena iniziato.
Iniziò il conto alla rovescia, la prossima volta che sarei entrata in un campetto sarebbe stato per una vera partita, la prima.

Questa però è un’altra storia.

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