“La stagione del pallone viene e va,
i desideri non invecchiano quasi mai con l’età.
Se penso a come ho speso male il mio tempo
che non tornerà, non ritornerà più.”
L’ultima partita di campionato è sempre un evento traumatico. A prescindere dal risultato finale e per quanto mi possa sforzare di rimanere impassibile e impenetrabile, quel triplice fischio invade i miei spazi e le mie abitudini come un ospite inatteso. E il trauma aumenta esponenzialmente dal momento che il campionato nel quale gioco prevede che ci siano squadre che smettono di giocare prima delle altre. Tipo la mia.
La fine del campionato non è come l’ultimo giorno di scuola, quando la campanella definitiva segnalava la fine di compiti e interrogazioni e l’inizio di un tempo pigro fatto di racchettoni, dormite sotto l’ombrellone e qualche fugace amore estivo. Eh no. La fine del campionato è una pezza assurda: sembri smarrita, non sai cosa fare, non dai più un senso alle tue domeniche e percepisci un vago senso di inadeguatezza in un mondo in cui, anche se non vorresti mai ammetterlo, ti senti pienamente realizzata soltanto con un pallone tra i piedi (e per questo cominci a iscriverti anche ai tornei amatoriali della parrocchia, attirando su di te l’odio – e i calci sugli stinchi- di giocatrici principianti che devono fare i conti con la tua mania di protagonismo e la tua patologica competitività).
La fine del campionato somiglia più a un interminabile lunedì dopo un’intensa domenica, al sempre sconvolgente ritorno alla normalità dopo un sabato del villaggio che ha creato attese, speranze, che ha rinvigorito i tuoi desideri dandoti l’impressione di essere invincibile. O, almeno, l’illusione di poterlo essere per un giorno. Di poterlo essere per una domenica.
Ma tutto finisce.
Sì lo so, alla fine non è poi una tragedia. I campionati cominciano daccapo, la vita continua, le margherite fioriscono e la terra non smette di girare intorno al sole soltanto perché è finito un campionato di calcio. Però non è mai una sensazione piacevole. “Tra l’attesa e il suo compimento, tra il primo tema e il testamento nel mezzo c’è tutto il resto” canta Niccolò Fabi, ma questo tutto il resto sembra durare davvero poco.
Tutto il resto si perde tra le aspettative dell’inizio e il clamore teatrale della fine. Dopo i sorrisi, le lacrime tante (troppe) volte versate, le esultanze e le incomprensioni, viene calato il sipario e su di esso si proiettano immediatamente istanti che sono già ricordi, innumerevoli attimi immortalati dalla reflex di qualche tifoso. E tra le gioie delle vittorie e il dolore delle sconfitte ti tocca anche fare i conti con i rimpianti che lasciano un vuoto e con i rimorsi che, quel vuoto, lo hanno riempito nel modo sbagliato.
La fine è dunque un momento di riflessione, un’occasione per ripiegare su sé stessi e dare un senso a ciò che è accaduto, lavorando sui ricordi affinché, di fronte all’impatto emotivo dell’epilogo, tu possa comunque sorriderne. Probabilmente il meccanismo della memoria funziona proprio così: selezionare da una matassa aggrovigliata di eventi ciò che ci ha reso felici, elaborare e superare ciò che ci ha fatto soffrire e da tutto questo cercare di trarre un insegnamento per il futuro. Perché è vero che nulla accade senza assumere un significato, nulla accade senza che ciò possa diventare momento di crescita e di perfezionamento.
Ringrazio chi, in più di una occasione, ha avuto la pazienza di sostenermi e di urlarmi dietro con vigore: “Reagisci!“.
Ho capito che solo una re-azione orgogliosa e coraggiosa di fronte a situazioni avverse può renderci veramente liberi.
[Vedi → Un giorno questo dolore ti sarà utile https://www.comingsoon.it/film/un-giorno-questo-dolore-ti-sara-utile/48724/scheda/]
Il modo emotivamente distruttivo e a tratti patetico con cui reagisco alle cose che finiscono mi ha fatto capire di avere un problema con le cose che finiscono. Dal momento che ogni cosa è destinata a finire, posso affermare quasi con certezza di avere un problema un po’ con tutto: esperienze di vita, relazioni personali, partite, campionati o pacchetti di caramelle.
La parola “fine” è una di quelle enormi parole che genera in me uno stato d’ansia paragonabile soltanto a quei momenti in cui mia madre se ne esce dal nulla chiedendomi “allora? che vuoi fare nella vita?”. Insomma, una cosa brutta. Ma è anche una bella parola, perché contiene in sé l’idea di un passaggio, di un luogo o un momento da raggiungere e poi superare (in latino finis significa limite, confine): è quindi insieme punto d’arrivo e punto di partenza, epilogo e principio, termine ultimo e rinascita. E i campionati sono un po’ così, qualcosa che finisce ma che non finisce mai davvero. Più di ogni altra esperienza della mia vita il calcio mi ricorda che non è mai veramente finita, che c’è sempre un domani e che la vita mi dà ancora l’opportunità di fare meglio, invitandomi a superare i miei limiti.
Ogni fine campionato non è che il preannuncio dell’inizio di una nuova stagione. Probabilmente si chiamano “stagioni” proprio per questo, perché si susseguono l’una all’altra seguendo quasi il ciclo naturale delle cose. Finiscono, ricominciano, muoiono, rinascono: in altre parole, ci sopravviveranno.
Tutto finisce, è vero. Ma ogni giorno può essere il primo giorno di qualcosa .
Questo tempo d’attesa sarà un soffio di vento, in un attimo finirà la primavera e l’estate si consumerà velocemente lasciandoti alcune impressioni distratte e qualche scottatura. Senza accorgertene, quando tutti saranno presi da quella malinconia sonnolenta che anticipa settembre, ti toglierai le infradito e con lo stesso entusiasmo della te bambina indosserai nuovamente i tuoi scarpini.
E così ricomincerai.
Per aspera ad astra
