Per uno che abbia a cuore l’onore di sua madre o di sua sorella, fare i tunnel non è propriamente un’attività consigliabile. Se decidi di farlo, devi essere in qualche modo pronto a subirne le conseguenze, dal momento che è statisticamente impossibile che l’avversario la prenda bene, se ne dimentichi e si esima dall’offendere tutti i rami femminili del tuo albero genealogico, dalla trisavola defunta durante la prima guerra mondiale, alla nipote innocente di 7 anni che si ritrova già bollata come poco di buono. Anzi, diventi responsabile e custode privilegiato della sua ira funesta, i cui esiti sono tanto più imprevedibili quanto più si abbia a che fare con un avversario particolarmente sensibile all’offesa. Chi subisce la famosa busta (a Roma dicono così, o meglio buuusta, dove la lunghezza delle u è direttamente proporzionale al grado di rodimento di chi l’ha subita) gode di una sorta di beneplacito pubblico che lo autorizza a sfogare la sua frustrazione nel modo da lui ritenuto più opportuno: dalle già citate offese, all’entrata da killer con il piede a martello, dalla poco dignitosa uscita dal campo alla più apprezzabile vendetta occhio per occhio, umiliando il colpevole con la stessa potentissima arma, appunto la busta.
Il tunnel, fondamentalmente, è da infami. Far passare la palla sotto le gambe altrui è un vero e proprio torto, un atto deliberato di “coattaggine” gratuita, una esibizione della propria incontrovertibile arroganza, una volontà di umiliazione per nulla celata. E proprio in virtù di questa infamia che esso provoca, il tunnel è il gesto tecnico più apprezzato dal pubblico, più applaudito perché imprevedibile, perché rapido, perché, lasciatemelo dire, bello. Il tunnel è bello. È bello lasciare l’avversario lì sul posto, attonito e un po’ imbarazzato, anche lui a tal punto sorpreso da rimanere immobile ancora con le gambe semi aperte. È bello sentire quell’ooooh corale che giunge dalle tribune a esaltare acusticamente la bellezza del gesto e a mortificare ancora di più l’avversario. È bello quel sorrisetto infantile che ti si stampa sul viso, un lato del labbro superiore che si solleva leggermente, le sopracciglia un po’ aggrottate e l’occhio vispo: trasudi orgoglio, trasudi felicità, trasudi arroganza. E si sa, nel futsal l’arroganza, talvolta, viene premiata, e l’arrogante gode del diritto agli onori del trionfo.
Ci sono momenti in cui la giusta dose di presunzione, spocchia e boria è consentita. Ci sono momenti nel futsal in cui la sfrontatezza e la volontà di mettersi in mostra (anche a costo di fare una colossale figura indecente, perché il tunnel è affascinante proprio per la sua pericolosità) sono legittimi, hanno una loro ragione d’essere. Il tunnel non è altro che il tentativo romantico e titanico di superare i propri limiti, di superare un ostacolo oggettivo, l’avversario, utilizzando tutti i mezzi tecnici e intellettivi di cui disponi, e appellandoti a quella immancabile variabile del futsal: l’istinto.
Il tunnel è tra i gesti tecnici più poetici proprio per la carica emotiva che lo anticipa e che lo segue, per l’ammirazione che suscita chi ha il coraggio di farlo, per l’orgoglio ferito di chi l’ha subito, per il fiume di bisbigli, fischi, commenti e storie che da esso scaturisce, per la luce negli occhi e per quel sorriso atavico, infantile, genuino che sboccia sulle labbra del coraggioso che ce l’ha fatta.