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Numero Sette

Scrivere è l’espressione che ho scelto per raccontare il mondo intorno a me. Capita che qualcuno mi chieda di raccontarlo diversamente oppure di non raccontarlo affatto. Scrivo per me, non per essere letto, diffidate da quelli che vi dicono il contrario. Sono le mie storie, nelle quali incastro pezzi della mia vita
Negli ultimi mesi, troppi racconti sono rimasti “nascosti”, dimenticati in una cartella.
Questo è solo l’ultimo di quelli che “non è il caso di pubblicare”.
Ho deciso di riscriverla, con personaggi di fantasia, come se fosse una storia lontana.

Non esistono le coincidenze.
L’ho sempre pensato e continuerò a pensarlo.
“Caffè con Helena e Julia?”, la voce di Jen è distante, immersa nel suo lavoro non si volta nemmeno a guardarmi, sembra rivolgersi al vuoto. Trascorrono solo pochi istanti e un messaggio molto simile inizia a lampeggiare sullo schermo del mio computer.
“Se anche dal vivo ha quel fastidioso ronzio della chat, passo se c’è Julia”.
Replico con sicurezza.
Una lunga giornata questa che spero conduca ad un caffè che rotolerà poi pigro fino all’aperitivo.
Durante la mattinata ero incappato in una di quelle letture del tutto casuali, Kobe Bryant raccontava il suo primo incontro sul parquet con sua Maestà Aerea: Michael Jordan. Nel suo anno da rookie aveva certamente molto da imparare, eppure in questo caso sapeva esattamente cosa aspettarsi.
Spin-Move sulla linea di fondo campo e ingresso a canestro.
“Sapevo cosa aspettarmi, l’avevo visto eseguire quella mossa migliaia di volte”. Tuttavia c’è una differenza tra la velocità della ripresa televisiva e quella sul campo. L’ha eseguita esattamente quando io stavo ancora pensando “ecco, ora lo fa” .
Se come me vi siete chiesti come fanno quei giocatori a lasciarsi saltare sempre dalla stessa finta?
Trovate qui la risposta. La velocità d’esecuzione e il tempo d’esecuzione.
Non mi chiedete perché mi sono portato questo pensiero in testa per tutta la giornata.
Entro nel bar, mi giro verso il tavolo e scorgo due figure che mi sembra di riconoscere.
Una è Alex, un nome da uomo penso invece lei è bellissima e molto femminile. “Perché Alex chiedo sperando di non farmi sentire, quella noiosissima precisina di Helena mi fa notare l’ovvio.
“È il diminutivo di Alexandra”, ci tiene a puntualizzare con quella voce fastidiosa.
Non capisco perché visto che Alexandra è un bellissimo nome, non capisco perché preferisca essere associata al nome di un bastardino adottato al canile, al personaggio dell’orrendo film con Alberto Tomba..
L’altra è Julie Rodgers Morgan Thompson. Scritto rigorosamente per intero, così impiegate cinque minuti, solo a leggere il suo nome.
Sono lì a un tavolo, con un’altra compagna di squadra.
Salutiamo e ci sediamo al nostro.
Mi arriva distratta la voce di Julie Rodgers Morgan Thompson.
Stride con l’atleta che tutti possono ammirare sul campo.
Vi aspettate una voce piena e profonda, invece ha questa voce leggera, con un tono alto.
Mi ha preso un po’ alla sprovvista questo suono, come quando l’ho vista con i capelli sciolti, c’era qualcosa che non andava, come se ci fosse: la donna e l’atleta.
Invece non è così, non lo è mai.
C’è uno strano filo dentro a questi giorni.
Lunedì ero al sorteggio per il March Madness, le finali del College USA, c’erano anche le ragazze delle Thunder, quasi al gran completo, perfino Sammy in braccio alla sua mamma, il bomber delle Thunder Christen.
Parte un filmato che celebra la passata edizione.
Le ragazze delle Thunder, sconfitte in finale hanno facce lunghe, c’è chi scuote la testa, chi non riesce a guardare e poi c’è la numero sette, con quello sguardo serio piantato allo schermo, senza distogliere lo sguardo.
C’è qualcosa di triste in quello sguardo, è una tristezza privata, di quelle che si conficcano di traverso in gola, ti spingono il cuore nelle budella e portano i pensieri lontano.
Torno a guardare il filmato, per pudore, per rispetto, per tutte quelle ragioni che rendono certi dolori incomprensibili a chi non li vive sulla pelle e li bagna con le lacrime.
Jen mi strappa via a questi pensieri.
“Ecco, lei…”, indicando con un cenno del capo l’altro tavolo, “è come Michael Jordan”.
“Sai benissimo che ti salterà sempre nello stesso modo eppure non riesci, a fermala”.
“Palla a Julie e ci abbracciamo”.
“Ricordi Giuseppe, Beppe Signori? Sempre lo stesso dribbling in velocità e sempre la stessa botta nell’angolo lontano, sempre lo stesso gol, 188 volte in Serie A”.
La rabbia degli anni di Foggia, quell’arroganza che ci vuole per farsi valere negli angoli bui dei campi di periferia. Quello strapotere fisico e tecnico, di chi ti passa nonostante tutto, di quello che “saluta e se ne va”.
Julie Rodgers Morgan Thompson, è tutto questo e ancora di più.
Lei di salta in un campo di quaranta metri, lo fa in uno spazio che vede solo lei, perché vi assicuro che dalle tribune o dalla linea laterale, quella striscia di parquet libera, non si vede.
Capisco perché siano venuti a vederla da Diamond Bar, quando non giocava più per loro.
L’ho vista spaccare la partita, perché semplicemente era arrivato il momento di vincere.
L’ho vista indicare il lato in cui ti salterà e farlo, nonostante l’avversaria avesse coperto quel lato.
L’ho vista offrire lo spazio nel quale saltarla e andar via poi palla al piede, con l’avversaria intenta a cercarsi ancora le caviglie.
“Noi non perdiamo, domani noi non perdiamo”.
“Si ma se succede?”
“No. Noi domani non perdiamo”.
“Noi, non perdiamo”.
Gli ho creduto.
Perché quella voce non lasciava spazio al dubbio, come non ne lascia agli avversari.
In quella voce c’era la consapevolezza di poter fare la differenza.
La guardo e c’è qualcosa in quel cuore, che lo fa battere a un ritmo diverso, come una malinconia della bassa California, vicino al confine messicano,  in un pigro pomeriggio di fine estate.
Sono per te numero sette, queste parole.
“No hay persona alguna que deba pensar tanto, en tan poco tiempo y a tanta velocidad, como un futbolista cuando enfrenta al arquero y este lo mira a los ojos.”
Perché i tuoi occhi Alex raccontano di più di quel che pensi.

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