Sport

Una questione di numeri

Ci sono persone che guardano le partite, ci sono quelli che ti raccontano la cronaca e ci sono quelli che si distraggono facilmente.
Io sono nell’ultima categoria.
Un freddo indecente, uno stadio nella cintura sub urbana di Milano.
Volevo scrivere periferia in realtà.
Sono un po’ stanco, dell’essere doroteo ad ogni costo, di parlare senza dire.
Siamo nella cintura della città meneghina, pigra il mattino e piena di nebbia, grigia e malinconica. Federica s’intristisce e diventa rancorosa, come le accade solo nei bar che fanno coincidere lo sbattere dei piattini da caffè con il suo ciclo.
Sono lì dal mattino presto a stento vedevo il campo seduto dalla mia postazione. È curioso sapete guardare la realtà due volte, attraverso i propri occhi e attraverso il filtro della ripresa digitale. Ho appena letto un pezzo sul web, c’è gente che si definisce “wedding storyteller”, sarà a me queste due parole insieme mettono l’ansia. Sarà che in giro è pieno di commercialisti artisti dentro e fuori e poveri scemi che scrivono per il piacere di vedere la pagina bianca diventare piena di parole, anche a caso.
C’è la finale del campionato Under 16 di Football Americano.
In campo i Parma Panthers.
Sarà per colpa di Grisham, sarà per i colori bianchi e neri, c’è una qualche alchimia misteriosa che mi riempie la testa di suggestioni e immagini.
Bianco e Nero, come la Juventus, l’ho amata per quasi 35 anni, non c’è stato un amore così lungo, se vedessi il Newcastle il mio cuore farebbe la stessa associazione. Ho in casa una biografia di Kevin Keegan, che ho letto più volte.
Sarà per quel meraviglioso ritratto sul football italiano, nato per caso e diventato un successo clamoroso, sarà per quel bellissimo affresco della provincia italiana.
Sarà anche per colpa del Parma di Nevio Scala, del 3-5-2, quello vero, per colpa di Gianfranco Zola e Tino Asprilla, per le calze a rete di Crippa e l’ignoranza di Cannavaro, quanto per lo stile di Thuram.
I ragazzi under sedici giocano a sette, come le donne del football americano, Federica  mi chiede: “giocano con il nostro regolamento vero?”, annuisco e mi rendo conto che per lei all’improvviso la partita si fa più interessante.
Primi drive, basta poco e il mio pensiero corre lontano dalla cronaca.
C’è un papà sulla sideline e un figlio sul campo.
Un figlio d’arte, di quelli che devono giocare osservati con attenzione da un genitore che non è stato propriamente uno scarso, in quello stesso sport.
L’ho già vista questa immagine, penso al talento di Chiara nel softball e alle sofferenze della sua mamma fuori dal diamante.
Forse il talento per lo sport si tramanda, forse no. Certo ci sono i Manning, ma ci sono anche i Carter, ci sono i fratelli Carr, potrei andare avanti anche solo usando il football americano.
Forse è più facile apprendere i fondamentali e forse no, forse è più difficile doversi misurare da subito con la differenza tra il puro talento e la combinazione talento e duro lavoro.
Il ragazzo in campo ha una compostezza e una pulizia nel movimento che mi vien voglia di scendere e abbracciarlo, perché insomma voi non lo fareste?
Quando corre, lo vedi piegarsi in avanti come a nascondere il pallone, poi aggredisce il terreno, lo morde e vola via.
Ogni corsa è per la squadra, ogni giocata è costruita per i compagni intorno a lui.
Corre per chiudere il down, corre per dare una nuova possibilità alla sua squadra, mai un taglio all’interno solo per dimostrare di poter vincere da solo, mai un colpo preso inutilmente.
Sembra un giocatore veterano, invece non ha nemmeno sedici anni.
L’attacco dei bianconeri esce, lo seguo con lo sguardo.
Si stacca dai compagni di squadra, passeggia avanti e dietro qualche passo alle spalle degli altri che sulla linea laterale osservano la difesa respingere gli assalti dei Giants Bolzano. Sembra inconsolabile eppure stanno vincendo, anzi dominando la partita.
Terzo e corto per l’attacco avversario, si alza dalla piccola panchina che è stata portata in campo e raggiunge gli altri sulla linea laterale. Ecco sono qui, pronto a rientrare in campo, perché so che li fermerete qui e noi torneremo dentro.
Forse è solo frutto della mia immaginazione, forse no. Se fosse anche solo un gesto dettato dall’imitazione, va bene così.
Handoff al numero 33 bianco e nero, Federica mi guarda ed esclama “quindi a Parma i runningback forti indossano tutti quel numero…”
Basta qualche snap offensivo e aggiunge: “noi non siamo così belle quando giochiamo”.
Già. Belli è l’unica parola che ci trova tutti d’accordo sugli spalti.
Sembra impossibile, il freddo aumenta, noi abbiamo i guanti e le dita congelano ugualmente.
In campo portano al numero 11 dei Panthers una coperta nella quale avvolgere le mani.
Mi volto all’improvviso come se avessi letto quel numero sulla maglia per la prima volta.
“Dai cazzo, ma è l’undici”, credo di aver detto in un italiano davvero improbabile.
Il numero di Ilaria, il numero di Federica, il numero di Tom Becker.
Tutto torna, all’improvviso ha un senso, come se i numeri potessero davvero spiegare il caso, mettere ordine e portarmi esattamente lì dove sono felice di essere.
Federica mi ha guardato come si fa con i bimbi che hanno imparato a mangiare con il cucchiaio senza gettarsi il brodo addosso.
“Undici, è l’undici…” ho insistito per un po’, non riuscivo a capire perché quella semplice indicazione non le rivelasse tutto il mondo di parole che avevo trovato lì, su quei numeri.
La partita volge al termine, mai in discussione il risultato.
Su quella panchina il numero undici si siede, arriva il ragazzo con il trentatrè e quello con l’ottantadue. Chiedo a Fede di riprenderli, la cronaca dell’incontro per un attimo può lasciare il passo.
C’è tutta la storia di questi ragazzi, della fratellanza sportiva che non li abbandonerà mai, ovunque li porterà la vita.
Il papà si avvicina, i capelli ricci brizzolati che sfuggono al cappellino calcato in testa.
S’accorge subito di essere entrato in uno spazio riservato a loro, con delicatezza accenna qualche parola e torna sulla sideline.
Non importa in quale veste, allenatore o genitore, quello è il loro tempo, riconoscerlo è un gesto di nobile normalità.
Chapeau.
L’arbitro alza la palla, tenendola alta sulla testa.
I Parma Panthers Under 16, sono i nuovi Campioni d’Italia.
Non so nemmeno come ti chiami numero undici, conosco di vista il tuo papà, nel senso che potrei riconoscerlo se lo incontrassi.
Numero undici, dico a te: grazie, per la storia che hai raccontato giocando, per i tuoi compagni e per la partita che mi avete regalato.
Grazie per averci fatto compagnia in macchina nel viaggio di ritorno, lunghissimo fino a Pescara. Parlavamo di talento e sport, parlavo di queste righe, di questo racconto.
Federica ammirata dal coraggio del ragazzo con la maglia numero 5 bianca, io a sostenere che è più difficile essere il numero 11 nero.
Grazie, tuo malgrado ora, sei uno di famiglia.
Come Ilaria, 11 del One Team.
Come Federica, 11 delle Lobsters.
Come Tom Becker, 11 della New Team. [Papà credo ti possa spiegare chi è…]
Ciao Numero 11, ci vediamo sulla sideline.

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