C’è una storia che inizia a Madrid, in un campo da futsal, da calcetto insomma.
C’è un nonno tifosissimo dell’Atletico che porta il suo nipotino alle partite dei conchoneros, che vede questo ragazzo biondissimo primeggiare nei palazzetti con i suoi coetanei, fino a farsi notare dagli osservatori proprio della sua squadra del cuore.
Questo ragazzotto, il suo nipotino, a diciotto anni è il capitano dell’Atletico Madrid, la bandiera di una intera nazione, la faccia pulita di una tifoseria costretta a vivere troppo spesso all’ombra del Real.
Non puoi non amare il Niño Torres, per quel suo modo di giocare che l’hanno reso una bandiera della Kop del Liverpool, per la caduta nella polvere dopo il trasferimento record al Chelsea. La brutta parentesi al Milan e poi il ritorno a casa, a quella maglia a righe bianche e rosse.
Un lungo preambolo il mio, per raccontarvi di come questo mio amore sportivo verso Fernando Torres s’intreccia con un’altra storia di sport.
Questa storia, come quella precedente inizia a Madrid, c’è un Atletico Madri, c’è il futsal e c’è un giocatore spagnolo.
Sara.
Quel numero 4 sulla schiena, quel modo di giocare e guidare la squadra, quello sguardo fiero e quella regalità tutta da condottiero. Se ho un rimpianto nella stagione appena passata è non aver avuto il tempo di chiedere a Sara la sua maglia, non pensavo andasse via da Montesilvano, “c’è sempre la prossima stagione” mi sono detto.
Sbagliavo.
Ero triste alla prima di campionato, felice per le ragazze in campo, io ero senza il mio “fernando torres”, scritto in minuscolo solo per rispetto al centravanti spagnolo, insomma a me quel quattro è mancato tanto sul parquet.
Sono uno sciocco sentimentale, lo so.
Ieri durante la partita, guardavo la Amparo accelerare e spaccare da sola la partita, volevo chiederle: “com’è avere così tanto talento….?”, poi ho guardato le dita al cielo dopo il primo gol, quasi solo accennate, il sorriso triste, l’abbraccio delle compagne, la domanda mi si è spenta in gola.
Federica dice qualcosa tipo “guarda Ersilia, sarà anche piccola ma è fastidiosissima per le avversarie”.
Io la cerco con lo sguardo in campo.
“Dov’è…perché gioca?”
Eccola, con il numero cinque sulle spalle.
Odio il tuo parrucchiere Ersilia, sappilo, non poterti trovare in campo al volo seguendo al chioma bionda è INACCETTABILE.
Scuoto la testa e sussurro a Federica: “il suo parrucchiere dovrebbe essere internato”.
Marocchi e Bonini.
Diana.
Ecco a chi mi fa pensare la giocatrice romana.
Pensi sempre di poter fare a meno di un giocatore così, poi scopri che quando non è in campo ti manca davvero. In campo ti puoi appoggiare ad un giocatore così, mette la squadra davanti a se stessa e non puoi non amarla se le senti argomentare che lei, le sconfitte non riesce proprio a dimenticarle. Non esiste perdere, nemmeno quando il tabellone della vita ti dice che il tempo è finito, che non puoi rimediare.
Penso a queste cose quando Federica esclama indicando il telefono: “Sara si è fatta male….”
Il cervello smette di seguire i pensieri e si focalizza su quella immagine.
Come fa una donna di cui hai incrociato solo per pochissimo la vita ad essere così importante?
Non lo so, nemmeno mi importa scoprire perché, sarà per il talento sportivo, sarà per il sorriso fuori dal campo e la classe in campo.
Avevo pensato di scriverle per avere la sua maglia quando sarebbe tornata da avversaria a Montesilvano, la vita invece ha deciso che forse questo non accadrà.
Volevo guardare la registrazione della partita, non ci sono riuscito, non voglio vedere quando ti fai male, per me sei e sarai in campo, con quell’aria severa di chi sa quello che vuole e come fare per ottenerlo.
Io faccio il tifo per te Sara, facciamo tutti il tifo per te, nel mentre ho comprato la cornice dove mettere la tua maglia autografata, stavolta mi sono preparato per tempo.
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