Grazie Silvia per la foto.
Stadio dei Guelfi.
Luglio, un caldo accecante.
La palla vola in aria, il numero 32 in maglia verde s’allunga per ricevere il pallone, sembra riuscirci, almeno per qualche istante, poi malevolo l’ovale di cuoio rimbalza, come impazzito e finisce nelle mani dell’avversario.
Quattordici secondi sul cronometro, palla alla squadra rossa, game over.
Il fischio dell’arbitro, libera gli abbracci e vi lascia respirare, finalmente.
Finisce così il primo all stars game italiano di football americano femminile.
Avanti veloce.
Domenica mattina, nello studio di una psicoterapeuta infantile, circondando dai disegni coloratissimi di bambini sconosciuti, puoi fermarti un attimo a riflettere su questo viaggio lungo tre anni.
Sembra d’aver attraversato i frammenti di mille vite, d’aver raccolto troppe emozioni che s’affollano nel cuore senza andare via.
Tutto questo, semplicemente per aver seguito la lucida follia contenuta in una manciata di parole: “Perché no?”.
Indietro veloce.
L’una del mattino, Federica mangia due tramezzini comprati in un distributore, Sesto Fiorentino, oppure Fiorito come direbbe Karen, siete stanchi, volete andare a dormire ma nessuno fa davvero qualcosa per andare via, sopravvissuti a un’avventura intensa e speciale.
I ricordi viaggiano all’indietro fino ai gradoni dello Stadio di Zanni a Pescara, poi veloci ancora più indietro ad un prato verde pieno di tende vicino ad Isola del Gran Sasso e poi di nuovo avanti, agli abbracci sudati e pieni di lacrime del dopo partita.
Due anni senza vittorie, due anni.
Indietro veloce.
Davvero? “Come fate a perdere con giocatrici così…”, non l’abbiamo fatto.
I numeri recitano una litania fatta di cifre implacabili, nonostante tutto su qual campo accade qualcosa di meraviglioso.
Il weekend è iniziato con una bellissima frase che ti si è stampata in testa:
“It’s amazing what you can accomplish when no one cares who gets the credit”, grazie John Wooden e grazile Livia.
Ci sono vittorie ovunque per voi che spendete sorrisi, lacrime e cuore in uno sport di cui sembra importare solo a pochi.
Regalatevi un attimo e distogliete lo sguardo dal tabellone, voltatevi a guardate negli occhi le vostre compagne.
Perché a guardare bene si notano gesti semplici e straordinari, quando Karen si congratula con Beatrice, quando Federica abbraccia Nausicaa, chi c’era allora sa bene quanto questi dettagli facciano tutta la differenza del mondo, quanto importante sia questa vittoria.
Quante parole inutili spese davanti ad uno schermo, poi ci si guarda negli occhi e vi scoprite sorelle, figlie dell’amore di questo sport che adorate e che vi rende meravigliose.
A scoprire finalmente la voce da legare a un viso, un viso da collegare alle parole, perché ora quando leggerete un messaggio scritto, questo avrà il suono della voce di una vostra nuova compagna.
Sei qui a raccontare l’emozione di un intercetto di Bea, di quel momento in cui lei ha smesso di essere Beatrice Carminati ed è diventata solo il suo nome, è ora una giocatrice della “tua” squadra. L’abbraccio con Karen dopo il fumble recuperato che vale sei punti sul tabellone ne vale milioni nell’economia delle loro vite.
Ci sono poi, quei gesti atletici che sono improbabili quanto meravigliosi, il blocco di Federica sulla corsa esterna di Nausicaa, non spezza solo una trama difensiva degli avversari, spezza anche degli sciocchi pregiudizi e spalanca le porte dell’amicizia.
Ci sono cronisti sportivi bravissimi nel raccontare gesta atletiche, nel disegnare con le parole le X e le O che caratterizzano le partite di football americano.
Non hai quest’abilità quindi ti limiti a raccontare le storie che vedi, come quella di questa donna folle che ospita a casa dei perfetti sconosciuti, qualcuno di cui ignorava l’esistenza solo qualche ora prima.
Grazie Linda.
Per essere esattamente così come sei, per essere andata via per una volta con “i tuoi nuovi amici” e per aver lasciato che fossimo noi a esserlo. Per aver condiviso un pezzetto della tua vita. C’è una targa qui ora che recita “Squadra Vincitrice”, tienila stretta, mettila sulla stessa scrivania insieme al pallone e al libro di Grisham. Yes, you play for pizza and much more.
Grazie ad Alice perché si scusa di essere un ingegnere mentre spiega la corretta portata in gradi di un angolo di corsa. Grazie a tutte quelle ragazze che all’inizio si guardano con un sospetto tutto femminile e poi finisco con l’essere amiche del cuore.
GrazieKaren.
Scritto rigorosamente tutto attaccato.
“Quando ho lisciato il primo placcaggio, ho pensato a te”, per quanto strano possa essere per lei questa è una manifestazione d’affetto. Potresti provare a spiegare il perché, ma non troveresti le parole adatte a farlo, non smetti di cercarle però.
GrazieKaren.
Forse perché vi somigliate maledettamente, per quell’incapacità innata di festeggiare un successo, per quel talento malato capace d’ingigantire un piccolo difetto facendolo diventare un’insormontabile onta indelebile. Per quella strana convinzione che se riuscite bene in qualcosa, senza avere l’impressione di impegnarvi particolarmente, allora possono riuscirci tutti, in fondo non avete niente di speciale.
Fanculo, non è così.
Per te lei ha il nove sulla maglia rossa, i capelli biondi e corre a festeggiare sotto la Kop ad Anfield Road.
Non ti va di spiegare perché questo sia il più grande complimento che ti viene in mente, forse Federica può provare a raccontarti quanto siano pensanti per te queste parole.
L’unicorno.
Pumba e Timon.
Federica.
“Non hai la struttura fisica adatta a questo sport, eppure hai un cuore grandissimo che ti fa essere un giocatore speciale.”
Non sono mie le parole, sono di qualcuno che non ha motivo per pronunciarle sempre che non le pensi davvero.
Le ricordi vero?, con quel suo accento americano ti ha detto guardando il tuo anulare piegato ad un angolo assurdo: “You are a great fearless player, it’s just that your body does not know it”.
Ti sei gettata senza paura contro avversarie più grandi di te, non per follia, ma per quella radicata convinzione che puoi farcela, nel momento stesso in cui ti dicono che non puoi allora decidi che invece puoi, anzi devi. Abituata a trasformare il “poco” in “tantissimo”, a vedere in quello che gli altri considerano rifiuti, doni preziosissimi hai portato questa mentalità nel tuo stile di gioco.
“Se posso farlo io…” indicando il tuo corpo minuto hai ripetuto spesso a compagne e amiche.
Ti svelo ora un segreto: “No, non possono farlo tutti.
Non con quel fisico da ginnasta, non senza quell’attitudine a dare il massimo, sempre in ogni occasione, perfino in una partita sulla spiaggia che non vale nulla”.
In inglese si chiama “competitive edge”, quel sottile confine sul quale è necessario rimanere se si vuole essere la migliore, racchiuso in ogni “vado a fare una corsetta”, “oggi vengo in bici”, ogni corso di pilates, seduta in palestra, esercizi sulla sabbia, ogni singola ricezione in acqua.
Non hai intenzione di essere obiettivo, per questo spesso sei feroce, perché vedi il cuore e sai quanto questo faccia la differenza.
Fine partita, commentatori che parlano e tu ti alzi, indichi il campo e in un sussurro “scusate ma ho qualcosa di cui occuparmi”. Ti giri e via, giù per i gradoni, senza attendere oltre.
Un anno lunghissimo questo, pieno di svolte improvvise e di salite ripide.
Perché il tuo più bel ricordo di quest’avventura e racchiuso dentro ad un abbraccio con Karen e Federica, in una foto che non volevi pubblicare, “why? You look like an head coach”.
La stessa voce, lo stesso accento, la stessa passione per queste donne meravigliosamente pazze. Quel pudore, quella ritrosia ad apparire, perché questo è il loro sport, loro le protagoniste, loro le meravigliose interpreti di questa favola sportiva.
Tu rimani sulla linea laterale, un po’ in disparte, a cercare un improbabile nascondiglio in quel non luogo che è l’area tecnica a fine partita.
I visi sudati e sorridenti, vostra la gloria, vostri i ricordi, vostro il cuore che vi fa scendere in campo ed essere donne e giocatrici, semplicemente sorelle.
Abbracci per tutti, anche per chi non c’era ed ha perso un’irripetibile occasione.
[FinalTilesGallery id=’18’]