Domenica pomeriggio.
Il caldo dell’estate.
Il futsal.
Ci sono occhi con te, troppo gonfi di lacrime, è tutto inevitabilmente accaduto in quel susseguirsi d’avvenimenti che si chiama vita. Ora devi spingerle via e voltarti dall’altra parte, verso il futuro, qualsiasi esso sia.
Siete seduti sui gradoni, in campo la Icobit C5, sugli spalti Federica e Giorgia.
La più piccola tra noi, quella che tra meno di una settimana dovrà guidare la sua squadra, contro una corazzata del campionato, una ragazza in una squadra di donne.
Oggi è qui per veder giocare una squadra vera, una grande squadra, per imparare a essere grande, come quelle meravigliose donne sul campo.
Le ragazze in bianco blu devono ribaltare il risultato, confermare le loro ambizioni, continuare a inseguire un sogno chiuso dentro ad uno scudetto.
In apparenza siamo qui per vedere una partita, in realtà siamo qui per guardare i dettagli, per osservare come si diventa grandi, come si gioca da grandi.
Le indichi Diana, la maglia numero venti sulle spalle. La solidità di un giocatore la riconosci subito, quella che non ti tradirà mai, puoi contarci sempre, è ovunque intorno a te e ti senti al sicuro, ogni volta che alzi la testa lei ti guarda e hai l’impressione che sia possibile tutto, non si ferma mai e non puoi giocare con meno intensità, non puoi essere da meno. Sarebbe un po’ come tradirla.
Federica continua a osservare la Amparo Jiménez López, vorrei davvero sapere qual è il suo nome per poter usare solo quello, nel dubbio l’ho scritto per intero. Vola, corre e salta l’uomo come se giocasse a una velocità diversa, oppure come se tutto il mondo fosse ad un passo di distanza.
Taglia e vola via, prende un palo, fa gol. La guardi giocare e non ti torna alla mente uno sport nel quale non potrebbe eccellere. Non è solo lo strapotere fisico, c’è qualcosa negli occhi, nell’aggredire la partita, in quell’atto di volontà che ti trasforma nella migliore.
Quello è lo sguardo che riconosci anche negli occhi di Federica, quel desiderio di essere la migliore, di soffrire e provarci. Se Giorgia avesse quella corsa, probabilmente praticherebbe un altro sport, le riconosci però quella stessa potenza, chiusa dentro ad un talento ancora non espresso.
Arriva Chiara, gioca a softball da interbase, un campionato in corso da vincere, un talento da far esplodere e consacrare. Non sa quasi nulla di futsal, le bastano una manciata di minuti e ti chiede: “quando giocano la prossima?” , le v avevi detto che c’era qualcosa di bello da vedere, lei non pensava fosse “così” bello.
C’è qualcosa di misterioso che lega i talenti veri, che li fa sentire partecipi l’una delle vicende dell’altra…
In panchina con il ghiaccio sul ginocchio e la maglia numero 4 sulle spalle c’è Sara.
In campo, sulla linea laterale, perfino quando è sugli spalti infortunata, ciò che ti colpisce è quella luce negli occhi. Hai visto quella stessa espressione negli occhi , la sera prima in un campo alla periferia di Chieti, sul diamante delle Atoms. Dietro casa base, nascosta dalla sua maschera da catcher hai visto lo stesso sguardo, quello di chi è li perché quel campo è casa sua, dove si trova a suo agio, capace di dominare ogni centimetro del terreno di gioco, padrona di ogni secondo. Annagiulia, Angy.
Sara è così, semplicemente.
Giorgia la osserva, con l’attenzione di chi cerca di carpirne il segreto.
Sara.
Quando sembra troppo lenta, accelera all’improvviso e salta due avversarie. Quando perde un pallone lo rincorre come se ci fosse un demone a possederla, quando vince un rimpallo non è mai per caso, lei vuole vincere più degli altri, quando la partita è in bilico lei ci sarà, scenderà in campo al tuo fianco, stringendo in quei pugni chiusi la partita, guidando la squadra.
Così si guida una squadra Giorgia, in testa al gruppo, la prima a prendersi la colpa, la prima ad assumersi la responsabilità.
Hai l’impressione che ad attraversare il campo ci sia una tensione agonistica che puoi quasi toccare, che si avverte sulla pelle e arriva fino agli spalti. Francesca dalla sua panchina dirige un orchestra, suona il suo strumento ed alimenta il furore agonistico delle sue ragazze Noe, Bruna, Ersilia, Alessia e tutte voi di cui colpevolmente dimentico il nome ma non le gesta sul campo.
Il fischio finale, la vittoria e la semifinale scudetto.
Francesca esce dal campo e lo lascia alle sue ragazze, sorridi un po’ pensando che proprio quel restare in disparte, quell’essere passionale in campo ma discreta un attimo dopo fa la differenza tra un allenatore e un grande allenatore.
Grazie ragazze, per il tempo speciale che muta inspiegabilmente ogni volta che vi guardiamo giocare, per l’emozione e per i ricordi, perché ad ogni partita mi chiedo cosa ci sia di “minore” nel vostro sport.
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