Football Americano Femminile

Fifteen

Fifteen

Questo è il momento.
Devo farlo.
Sono qui e non posso tirarmi indietro.
Le mie compagne erano in posizione, in un attimo il mondo si è mosso troppo velocemente.
Set … Hut!
Inizio a correre.
Quella mattina la sveglia era suonata troppo presto, ma la lasciai andare, il rumore non mi dava fastidio, non disturbava il sonno.
In realtà non dormivo, ero già sveglia, da ore suppongo. Ero rimasta tutta la notte a osservare il buio nella stanza, mi concentravo sui rumori o forse sull’apparente silenzio.
Sentivo i ragazzi nel bar di fronte casa, giocare a biliardino.
Esultavano così forte per un semplice goal, che sembrava di averli in camera.
Sentivo anche l’acqua dell’acquario al pian terreno, in sala. La potevo immaginare scendere, lentamente a riempire la vasca. Questo pensiero un po’ mi rilassava, ma non quanto necessario per riuscire a dormire. Per spezzare la noia di una notte senza fine, ripetevo le tracce in vista della partita: “0 – angolo di 45° a destra, 1 – angolo di 45° a sinistra, 2 – 5 yards e mi giro verso destro o tre passi in avanti, 3 – 12 yards mi giro verso sinistra e tre passi in avanti …”
Mi sforzavo anche di ricordare tutti gli schemi e le posizioni di gioco, tutto invano purtroppo.
Non mi rimaneva che alzarmi dal letto e cercare di liberarmi dal torpore. Quante mattine mi sono svegliata solo a metà della mia corsa in bus, quante volte sono sembrata sveglia solo ad un passo dal mio banco in classe?
Mentre mi affannavo in troppe riflessioni per quest’ora del mattino, sono inciampata nel borsone da gioco. Troppo pesante per una ragazza della mia statura, lo misuro un po’ alzandolo un paio di volte. Sono ancora in pigiama, l’ho sollevato e messo in spalla, allo specchio dovevo sembrare davvero sciocca così conciata.
In realtà non m’importava, ero talmente entusiasta di giocare, che l’immagine riflessa era irrilevante.
Pronti. Via.
Quel pulmino che ci avrebbe portati a Bologna, era arancione, come la nostra divisa, era anche straordinariamente comodo. Io troppo stanca per una notte trascorsa troppo in fretta, una combinazione che mi ha aiutato a utilizzare quel tempo morto per recuperare il sonno perso.
Come se il mondo si fosse accorciato fino a diventare una lunga striscia d’immagini mosse, mi sono ritrovata a fissare il cartello d’autostrada che indicava, Bologna.
Ci dirigiamo verso il campo, in un susseguirsi tutto uguale di case e strade.
Le mie compagne parlano, forse ho anche partecipato a qualche conversazione, ma sono la più piccola, l’ultima arrivata, cerco di non pensare a quello che non conosco ma non è facile.
Testa dritta mi ha detto M. , borsone in spalla e mi dirigo verso quello che dovrebbe essere il nostro spogliatoio. Sul muro ad attenderci i calendari delle partite, la lista delle squadre avversarie.
Per mesi sono stati solo nomi che ho sentito ripetere, ora hanno sangue e casco, armatura e gambe.
Annuisco ai nomi, insieme andiamo a cambiarci.
Nello spogliatoio la tensione occupava tutti gli spazi lasciati liberi dall’aria. Nessuno parlava, erano tutte serie e concentrate, non le avevo mai viste così in tutti i mesi nei quali con loro ho condiviso uno spogliatoio molto simile a questo.
Con ordine infilo la spalliera, allaccio prima un gancio e poi un altro, poi la bandana e poi tiro fuori il casco.
Lo indosso per un attimo, provo a muovere il collo e poi lo sfilo.
Ero pronta.
Uscite dagli spogliatoi quello che riuscivo a vedere era solo una grande distesa di fango, sfortunatamente era anche il nostro campo.
Il riscaldamento, la routine, sulla sideline e poi di nuovo in campo.
“Andiamo …”, forse è la voce di G. forse quella di N. Osservo come se fossi distante la squadra prendere posizione. Prima il centro, poi le guardie, il quarterback … ricordo a malapena il mio assegnamento.
L’arbitro fischia l’inizio e dagli spalti sembra scendere un profondo silenzio, c’è solo il rumore della pioggia.
Stringo forte il paradenti e poi attendo SET … HUT!
Inizio a correre.
Scatto via, senza sapere bene dove andare, ma non potevo fermarmi. Mi volto per un solo istante e lo spazio della mia maschera si riempie di guardie che bloccano i defensive back, c’è uno spazio piccolo tra quei corpi nel quale intravedo il quarterback, lo vedo andare in posizione per lanciare. Verrà dalla mia parte. Mi devo liberare se voglio completare una ricezione. Il lancio è lungo, taglio all’esterno e accelero, incontro alla palla e con mia grande sorpresa, è tutto come in spiaggia quando lo facevo per gioco. Il rumore sordo della palla sulle mani, l’ho presa.
Mi volto ancora a cercare il fondo campo e corro.
Sento il fango scivolarmi sotto i piedi e l’acqua mi finisce negli occhi, scende incessante.
Il free safety intercetta la mia corsa, arriva per placcarmi, sento che mi afferra la maglia e prova a buttarmi giù, con una mano cerca la mia palla, non devo lasciarla andare.
Provo a divincolarmi, devo spingere con le gambe, più forte che posso, le mulino come fanno quei criceti che abbiamo a casa. Riesco a liberarmi.
Spingo forte sul terreno per riacquistare equilibrio.
Corro più forte di prima, devo arrivare fino in fondo.
Arriva il dolore, come una scossa elettrica dentro le caviglie, troppo fatica e troppo orgoglio per fermarmi ora.
Corro.
Le ultime dieci yarde, manca poco, un ultimo sforzo.
Touchdown.
Sono libera.

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