Per chi abita in Italia ed è abituato ad avere solo uno sport di stato, cioè il calcio, capire le meccaniche degli sport USA non è facile. Aggiungiamo anche la capacità italica di cercare scuse e capri espiatori, ed ecco che una situazione come quella vista negli ultimi giorni a Los Angeles diventa poco comprensibile.
L’antefatto: Donald Sterling, ottantenne proprietario dei Los Angeles Clippers, viene accusato di razzismo per alcune dichiarazioni rilasciate alla fidanzata durante una telefonata privata. La registrazione viene sdoganata dalla ragazza stessa, ventinovenne di origini afroamericane e messicane, rea di aver scattato foto con Magic Johnson durante una partita e di averle pubblicate su alcuni social network. La registrazione riportata afferma che “Puoi fare quello che vuoi, anche portarteli a letto… Ma non portare neri alle mie partite”. Ora, affermare questo in qualità di presidente di una squadra composta per tredici quindicesimi da afroamericani, in una lega dominata da afroamericani, è un po’ come dipingersi un bersaglio sulla schiena. Prima o poi, qualcuno avrà voglia di spararti.
Dal come si siano dipanate le cose, emerge subito una domanda: perché il signor Sterling era intercettato? Semplice: non lo era. Il magnate ha l’abitudine di registrare le proprie conversazioni per evitare di dimenticare cose dette e sentite. Quindi la ragazza gli ha teso un vero e proprio agguato.
Ovviamente questo non lo giustifica: la dichiarazione è fuori luogo e pesante, denotando un’ipocrisia piuttosto spiccata per un presidente di una lega sostanzialmente black.
Da qui in poi però la situazione viene gestita in una maniera totalmente diversa da quanto avviene mediamente nei nostri sport, nonchè nella nostra società in generale.
Per prima cosa, nessuna smentita inutile o accuse alla stampa di non essere stato compreso, nessun grido al complotto e neanche tentativi di arrampicarsi sugli specchi. Sterling non ha mai negato di aver detto quelle parole, ma anzi è rimasto in silenzio per alcuni giorni, senza provare ad insabbiare tutto.
La gestione dello scabroso avvenimento viene presa in carico dall’unica persona con il potere di prendere decisioni nell’ambito dell’NBA, ovvero il commissioner Adam Silver. Chi non fosse avvezzo a questa figura non si spaventi, è normale. Silver altri non è che il garante della lega e delle trenta squadre che vi partecipano, risultando però in pratica un loro dipendente; in sostanza, un commissario che si occupa di tutti gli aspetti gestionali, disciplinari, regolamentari con tanto di elezione da parte dei presidenti di tutte le squadre. Dato che l’hanno eletto, non possono poi disconoscere la sua autorità.
La lega prende atto della notizia e in 3-giorni-3 prende una decisione, inappellabile e indiscutibile: per le sue dichiarazioni, Sterling viene radiato da ogni evento marchiato NBA e punito con una multa di 2,5 milioni di dollari, cioè il massimo della pena possibile. Ora nella vostra testa starà prendendo forma l’idea che le cose siano andate come da noi: polemiche, strali, denunce, ricorsi, appelli, cassazioni, TAR, proteste in piazza, accuse di accanimento, circo e saltimbanchi. Ancora una volta, mi spiace deludervi.
La sentenza viene recepita con effetto immediato, Sterling viene bandito e gli altri ventinove presidenti vengono invitati a riunirsi per decidere se e come esautorare Sterling dalla presidenza Clippers. Avete capito bene: gli altri presidenti decidono se lo vogliono ancora a giocare con loro.
Nel frattempo, la squadra non resta insensibile all’accaduto: durante la prima serie dei playoff decidono di fare il riscaldamento senza la divisa ufficiale ma solo con abbigliamento non marcato e non riportante il logo della franchigia. Le felpe Clippers vengono polemicamente buttate a centro campo ribaltate, in modo da non poterle leggere, mentre l’allenatore della squadra Doc Rivers (ovviamente di colore, perché Sterling ha deciso di combinarla gigantesca) dichiara che in caso di mancata sanzione lascerà la squadra, venendo di li a poco seguito nelle dichiarazioni dai due top player Chris Paul e Blake Griffin.
A seguito della sentenza i malumori di giocatori e staff si acquietano, consci che la certezza della pena sportiva ha garantito la punizione a chi si è macchiato di quelle dichiarazioni: ora si aspetta la decisione degli altri presidenti, con la sensazione che alla ripartenza del campionato la proprietà non sarà più quella dell’attuale magnate.
In Italia la notizia è passata un po’ a metà tra gossip e americanata, la dimostrazione che la facciata è più importante della sostanza: questo è un errore. L’NBA è un’azienda che muove milioni di dollari, e questo è sufficiente ad obbligare tutti quelli che stanno nell’ingranaggio a rispettare le regole. E’ importante che tutti sappiano che nessuno è più grandi delle leggi, del senso civile, volendo anche del buon gusto. Una lega che si fa promotrice di valori, iniziative per i più sfortunati, che è la dimostrazione pulsante che chiunque può raggiungere i massimi livelli se ne ha le capacità, non può permettersi di avere una squadra guidata da un razzista. Che per di più ha rilasciato quelle dichiarazioni prendendo di mira un’icona dello sport e dell’integrazione USA come Magic Johnson.
Ho provato un misto di divertimento e compatimento per chi si è lasciato andare a commenti sull’ipocrisia americana. Potranno essere ipocriti, potranno essere mossi dal vil denaro, potranno cercare di difendere la faccia e nascondere quello che è ancora un problema, cioè il razzismo radicato, ma sfido chiunque a definire “inappropriato” il comportamento del commissioner, oppure “fuori luogo” i tempi ed i modi delle decisioni prese. Lo sport deve essere prima di tutto uno spettacolo per tutti, una fucina di valori per chi lo pratica e chi lo segue, e se in tutto questo movimenta capitali, dando lavoro a migliaia di persone nell’indotto, chi si sente di condannarlo? Dare garanzie sull’intransigenza delle pene e del loro essere uguali per tutti da garanzie sulla credibilità del sistema. Non vedrete mai in un palazzetto NBA un tifoso con la maglietta “Speziale libero”: verrebbe cacciato. Non vedrete mai tifosi in grado di bloccare partite o manifestazioni: la lega è di tutti, le squadre non sono sotto assedio da gruppi di violenti perché il sistema non lo consente. Non vedrete presidenti far fallire squadre, organizzare combine con arbitri o far giocare giocatori con passaporti fasulli. Possiamo anche storcere il naso di fronte alla teatralità americana, ma questi fanno sul serio. Siamo forse così assuefatti da non avere la forza di capire che siamo noi quelli strani e che le cose possono essere diverse?