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Marco Belinelli alla conquista dell’NBA

Sono passate due settimane dall’All Star weekend NBA, ma come tutti i tifosi italiani provo ancora orgoglio per la prestazione del nostro Marco Belinelli nella gara del tiro da 3 punti; era la prima volta che un italiano partecipava ad una gara che non fosse quella rookies-sophomores.
Certo, non è questo il titolo che che ti rende un vincente, ma quando entrò nella lega nel 2007, molti lo davano di passaggio. Ritenuto troppo poco solido fisicamente, troppo discontinuo, troppo poco forte in un singolo fondamentale per essere uno specialista, ma senza un gioco all-around che lo rendesse un jolly. Insomma, né carne né pesce.
Inutile dire che il ragazzo di San Giovanni in Persiceto ha sempre avuto un’idea un po’ diversa.

Cresciuto in quella che per tutti è Basket City, ovvero la Bologna della grande rivalità Virtus-Fortitudo, non aveva dato l’impressione di essere pronto al salto tra i pro americani: prestazioni altalenanti, grandi giocate alternate a grandi pause, uno scudetto (abbastanza inatteso, a dire il vero) con la Fortitudo nel 2005, l’esordio in nazionale nel 2006. Marco sembrava all’inizio di una buona carriera, con il potenziale per diventare una delle migliori guardie europee ma al contempo il rischio di perdersi.

Anche se all’epoca veniva già seguito da diversi osservatori d’oltreoceano, fu davvero una sorpresa  la chiamata nel 2007 al draft NBA: con la scelta numero 18 i Golden State Warriors puntarono su Belinelli, primo degli europei scelti quell’anno, davanti anche ad un futuro All-Star come Marc Gasol. Inutile dire che la scelta non intrigò gli opinionisti americani, che addirittura calcolarono direttamente quanto sarebbe costato alla squadra di San Francisco rescindere il contratto con la guardia: 600000 $. Quello che non considerarono è la mentalità del Beli.

Debutto nella Summer League a Las Vegas, Golden State contro New Orleans: il tabellino dice 37 punti, 5 rimbalzi, 2 punti, ovvero seconda prestazione di sempre in Summer League. Belinelli giocò in maniera splendida il torneo, chiudendo con 22.8 punti di media, ma la stagione regolare è un’altra cosa rispetto ad un torneo estivo.
Nel primo anno non ha la fiducia dell’allenatore Don Nelson, che lo usa con il contagocce oppure gli lascia spazio nel garbage time, concedendogli una media di appena 7 minuti a partita. Marco non si abbatte, gioca un’altra grande Summer League ed entra nella seconda stagione con molta più fiducia in se stesso: si sente pronto ad avere impatto sulla squadra, magari come settimo uomo uscendo dalla panchina. I minuti aumentano, la sensazione che in questa lega possa ritagliarsi uno spazio pure, e le statistiche migliorano: ma siamo ancora lontani da quello che sono gli standard NBA per giudicare un giocatore come impattante.

Lui non molla ed inizia un pellegrinaggio in diverse squadre: prima Toronto (2009-2010), poi su richiesta di Chris Paul viene preso come free agent da New Orleans (2010-2012), dove ha due ottime stagioni partendo spesso da titolare, infine Chicago (2012-2013), anche qui su richiesta del giocatore più rappresentativo della franchigia, ovvero Derrick Rose. Questo riconoscimento alle sue caratteristiche da parte di due dei migliori playmaker della lega inizia a far cambiare la percezione su di lui da parte di tutti. Si allena con impegno, non si lamenta mai, si fa trovare pronto ad ogni chiamata, non è un mangia palloni e nello spogliatoio è una presenza molto positiva. Raggiunge i playoff nella prima stagione a New Orleans, ci ritorna con Chicago ed è il primo italiano a passare un turno di postseason. Ma dato che il suo contratto annuale con Chicago è in scadenza si scatena una piccola asta per lui: il suo agente riceve un numero non prevedibile di chiamate, tutte da squadre che ambiscono ai playoff. Ovviamente Chicago lo vorrebbe confermare, ma il progetto non lo convince. Chiamano i Clippers di Chris Paul, che lo vorrebbe nuovamente come compagno, chiamano anche Indiana ed Oklahoma, in cerca di un sesto uomo con punti nelle mani. Ma alla fine la spuntano i San Antonio Spurs, squadra che come al solito si muove sempre sotto traccia e mai in maniera avventata. Lui accetta l’offerta perché sa che li c’è una delle migliori organizzazioni (ne parleremo, prima o poi), uno dei migliori allenatori in Gregg Popovich, e il suo amico dai tempi di Bologna, ovvero Manu Ginobili.

E’ la situazione perfetta: si integra in pochissimo tempo, mette in mostra grande voglia ed impegno e fa dire a Popovich, noto per non sbilanciarsi mai con i media, “E’ sottovalutato, ha una mentalità vincente. Ora devo trovargli più minuti di quanto mi aspettassi”. Se siete familiari con il concetto di “investitura”, potete capire che questa lo è, in piena regola: Belinelli ha trovato la sua situazione ideale, e la fiducia dell’ambiente lo esalta. Lui la ripaga a suon di ottime prestazioni che gli valgono anche gli apprezzamenti di Duncan e Parker, i leader della franchigia come esperienza e peso emotivo. E’ in una squadra da titolo, parte spesso in quintetto, i giocatori NBA lo rispettano e in tanti lo incensano: viene da temere che si possa montare la testa, ma lui è Marco Stefano Belinelli da San Giovanni in Persiceto, non basta così poco a fargli perdere quella mentalità da lottatore che gli ha permesso di restare nella lega fino ad ora.

Arriva così la convocazione per la gara del tiro da 3 punti, dato che fino a quel momento tira in stagione con il 45%.
Se si vanno a vedere i nomi dei partecipanti vengono i brividi, ma il Beli non si scompone, passa il turno e va in finale contro Bradley Beal, in un duello che sa quasi di film western: 25 tiri a testa, 25 palloni di cui 9 valgono doppio, e i due si trovano appaiati a 19, risultato non male per chi un po’ di tensione dovrà pur provarla. Ovviamente non si può pareggiare, per cui si fa un altro turno modello tie-break.

Belinelli va per primo, inizia a sparare e dice 24, miglior risultato della serata. La voce di Flavio Tranquillo in telecronaca è emozionata, è quella di un tifoso prima che un telecronista, e all’ultimo carrello urla “E’ caldo come una stufa”: sono brividi, perché il risultato storico è vicino. Beal tira, ma poco dopo alla metà la matematica lo condanna: vince il Beli, che alza i pugni al cielo ma ha uno sguardo quasi timido al momento di ritirare il premio. In Italia i giornali impazzano, su Twitter diventa hot topic, i giocatori americani si complimentano sbagliando il suo nome, Shaq lo chiama “The Italian Stallion” e il sito NBA gli dedica un video della vittoria, mettendo in risalto come nel turno decisivo lui abbia fatto il miglior risultato della serata, dimostrando che “he has nuts!”. Sapete invece cosa dice Marco? Ringrazia tutti, dice che è una bella sensazione, ma quello che vuole è vincere l’anello quest’anno con gli Spurs; è nell’albo d’oro di una competizione che ha tra i vincitori giocatori come Bird, Hornacek, Allen, Stojakovic e Nowitzki, e lui dice che questo titolo da soddisfazione personale, ma conta poco.

Se devo essere onesto, io sono sempre stato tra quelli convinti che non ce l’avrebbe fatta, pensavo: “Come può riuscire la, se non è stato in grado di essere decisivo in Europa?”, ma dalla stagione scorsa ho capito che Belinelli sta riuscendo in una cosa difficilissima, ovvero imparare da tutti quelli con cui gioca. Si migliora costantemente, mette tutto se stesso in ogni allenamento, si fa trovare pronto e ha quelle qualità non prettamente tecniche che gli permettono di competere anche dove non arriva con l’atletismo o con la tecnica. Sono contento di poter dire di essermi sbagliato, sono felice di ammettere che un occhio a San Antonio lo metto sempre più spesso e volentieri, sperando che le prime volte di un italiano in NBA siano solo iniziate.

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