La seconda metà degli anni ‘90 è stata una specie di età dell’oro per l’NBA: il numero di grandi giocatori non si contava, le grandi rivalità erano al loro massimo e ogni anno una nuova potenza sorgeva per arrivare al titolo. Ci sono stati i Bulls del three-peat, i Lakers del three-peat, i Pacers di Miller, i Nets di Kidd, i Minnesota di Garnett, gli Spurs di Duncan. Ma nessuno ha mai avuto lo stesso impatto emotivo del numero 3 di Philadelphia, ovvero Allen Ezail Iverson. Un giocatore che avrà anche avuto la maglia numero 3, ma che lottava 48 minuti ogni sera per essere il numero uno del nostro cuore.
Come ormai avrete capito, le storie dei grandi NBA sono di due tipi: giocatori predestinati, con la passione per il gioco che li fa allenare e pensare solo a quello per 24 ore al giorno, e quei talenti purissimi accompagnati da vite complicate e attimi di follia; Iverson non solo fa parte della seconda categoria, ma ha alzato l’asticella del “chi ero e dove sono arrivato”.
Allen Iverson nasce nel 1975 a Hampton, Virginia da Ann Iverson, una ragazza-madre di 15 anni che gli da lo stesso nome del padre biologico andatosene poco prima del parto senza riconoscere la paternità del figlio; la situazione è ovviamente complicata per la famiglia, il quartiere non è quello della Hampton bene e il piccolo Allen assiste al suo primo omicidio già all’età di 8 anni.
Il malcapitato era il classico ragazzo più grande di lui che lo teneva lontano dai guai, una sorta di fratello maggiore da prendere come riferimento: inutile dire che l’impatto sulla vita di Allen di questo evento sarà molto duro, facendogli capire quanto fosse dura la vita reale.
L’approccio con gli sport scolastici vede Iverson potersi finalmente cimentare nello sport che, fin da piccolo, più lo appassiona; se pensate che sia il basket, siete ovviamente fuori strada. Si tratta infatti del football: viene utilizzato prima come quaterback, poi ci si accorge di quanto sia veloce e quindi viene spostato come running back, posizione che lo diverte da matti in quanto gli permette di fare anche 50 o 60 metri con la palla in mano mentre metà della squadra avversaria gli arranca alle spalle. Ogni volta che gli viene proposto di provare anche la pallacanestro, lui liquida il tutto con un eloquente “Cosa? Dovrei giocare a quello sport per femminucce?”.
Ma se le cose fossero andate così, non sarei a scrivere su Iverson: alcuni suoi compagni di football giocano anche a basket e lui prova, giocando da point guard. Tutti a guardarlo mentre con dei crossover pazzeschi fa cadere i difensori e appoggia comodamente al tabellone, azione dopo azione. Si capisce immediatamente che un talento del genere non può andar sprecato.
Inizia così la trafila scolastica che lo porterà a 15 anni ad essere eletto MVP in un torneo ad Indianapolis e, l’anno successivo, a guidare alla vittoria del titolo statale sia la squadra di football che quella di basket della sua scuola. Allen è al settimo cielo e va a festeggiare con gli amici al bowling locale queste vittorie; poteva andare tutto liscio? Ovviamente no: il suo gruppo inizia a litigare con alcuni ragazzi bianchi, e da li al passare alle mani il passo è breve. Iverson viene accusato del ferimento di una ragazza con una sedia, ma le telecamere non riprendono niente del genere. Non fa nulla, grazie ad una legge razziale il gruppo di Allen venne condannato a 5 anni in seguito alla testimonianza di alcuni testimoni che cambiarono idea un paio di volte durante il processo, andando così ad allontanare le possibilità di entrare in diversi college già interessati a lui, tra i quali la Kentucky di Rick Pitino. Il ricorso in appello viene però accolto da un giudice di colore che commuta la pena in 4 mesi, durante i quali Allen ha tempo di riflettere sulla sua vita e di stringere amicizie dovute alla conoscenza dei carcerati con il padre biologico e con il nuovo compagno della madre (mica penserete che potessero essere persone incensurate, vero?)
Una volta uscito dal carcere, finisce una scuola di recupero obbligatoria e viene comunque invitato dalla Nike ad un evento per permettere ai college di vedere i giocatori in uscita dalle high school: qui viene visto dal coach di Georgetown, John Thompson, che incurante dei precedenti decide di offrirgli una borsa di studio. Lui accetta ed inizia a giocare nella prestigiosa università di Washington D.C.: il primo anno mette insieme 20.4 punti, 4.5 assist e 3.3 rimbalzi di media, vincendo i titoli di Big East Rookie of the Year e Difensore dell’anno e portando Georgetown alle sweet-16 del torneo NCAA, dove la sua squadra esce per mano di North Carolina. Il secondo anno va pure meglio e con una media di 25 punti, 3.8 rimbalzi, 4.7 assist e 3.35 palle rubate vince nuovamente il titolo di Difensore dell’anno ed inserito nel primo quintetto All America. Si guadagna qui il suo soprannome, uno dei più azzeccati di sempre: lui è “The Answer”, la risposta, perché qualsiasi sia la situazione in cui la sua squadra si trova, lui ha la giocata giusta che risolve le cose.
Ma il suo tempo al college è agli sgoccioli: la famiglia è gravata dai debiti e, dopo averne parlato con coach Thompson, decide di candidarsi al draft del 1996 per poter diventare professionista e guadagnare i soldi per risolvere i problemi. Un talento del genere non passa spesso e Philadelphia lo sceglie con la numero 1, battendo il record del giocatore più basso di sempre ad essere scelto al primo posto. Stupiti? Iverson è 1,83 m, con velocità esplosiva ma mezzi fisici di un essere umano normale, non come Michael Jordan o Dominique Wilkins.
L’amore con la città è immediato e nonostante la squadra venga un paio di anni bui, l’entusiasmo è altissimo: The Answer vince il titolo di Rookie dell’anno con 23.5 punti e 7.5 assist a partita, trampolino di una carriera che lo vedrà diventare la quinta shooting guard ogni epoca e a vincere, nel 2001, il titolo di MVP della stagione, giocatore più piccolo di sempre ad aver raggiunto questo traguardo. E’ una stagione meravigliosa per lui e per i 76ers, quella del 2001: lui MVP e miglior marcatore della lega (31,1 punti di media), Mutombo vince il premio di miglior difensore dell’anno, McKie il titolo di miglior sesto uomo e Larry Brown (sempre lui…) quello di Coach of the Year. E sarebbe anche una stagione da titolo se dall’altra parte non ci fossero i soliti Lakers del duo O’Neal-Bryant, gli stessi che stroncarono le speranze di titolo di Reggie Miller l’anno prima; la squadra di Los Angeles arriva ai playoff dopo aver vinto le ultime 8 partite di regular season e non perde neanche una partita fino all’arrivo in finale. In pratica i gialloviola non perdono da più di due mesi.
Tutti danno per spacciata Philadelphia e si aspettano un altro 4-0 per i Lakers: analisti, tifosi, addetti ai lavori concordano che si tratterà di un bagno di sangue. Ma Iverson ha un’opinione diversa, e nella prima partita guida la squadra ad una rimonta strepitosa, la porta in vantaggio e poi la guida nel ritorno dei Lakers: 94 pari, si va all’overtime. I Lakers scappano ancora, ma lui segna, li riprende e con una tripla incredibile su Tyronn Lue, che fino a quel momento aveva fatto l’impossibile su di lui, chiude i discorsi. Proprio dopo quel tiro verrà scattata una delle immagini più belle della sua carriera: Iverson passeggia, dopo la tripla, sul povero Lue caduto a terra nel tentativo di fermarlo. Finita la partita, Iverson si presenta in conferenza stampa con sua figlia in braccio, dichiarando che quella serie non sarebbe tornata a Los Angeles: ha ragione, ma solo perché i Lakers vinceranno le quattro partite successive.
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La sua carriera continua a Philadelphia fino al 2006, quando l’accumulo di frustrazione per il fatto di giocare in una squadra non da titolo esplode. Viene scambiato con i Denver Nuggets, dove fa coppia con Carmelo Anthony. La squadra però non è in grado di competere per la vittoria e Iverson passa a Detroit, a Memphis, pure in Turchia, ma smette di essere il giocatore che tutti conoscono. Perché non sopporta di non essere il numero uno, di essere un veterano magari in uscita dalla panchina, di non poter giocare 40 minuti o più a partita. Lui vuole essere quello per cui la folla impazzisce, ma l’età aumenta e lui inizia a pagare le fatiche di una vita difficile: ha problemi monetari, perché anche se incassi 70 milioni di dollari in 6 anni i soldi vanno gestiti. Iverson invece non ne è in grado: quando va in trasferta, lascia la macchina nel parcheggio per portatori di handicap all’aeroporto di Philadelphia perché è il più vicino all’uscita, e paga qualcosa come 142 multe da migliaia di dollari l’una. Quando va a cena, ha sempre 30 o 40 persone al seguito, amici di infanzia e conoscenti, e a chi gli faceva notare la cosa rispondeva con “Se io mangio, tutti mangiano”. Per fortuna qualche amico ce l’ha, e negli ultimi contratti riesce a risparmiare quanto gli basta per una vita decente. Ma si annoierà a casa, senza poter correre 60 metri con un pallone da football in mano per andare in meta, senza poter fare i suoi crossover azione dopo azione, con lo sguardo che dice “Non puoi fermarmi, e se anche ci riesci, io torno”. La sua maglia era la numero 3, ma il suo posto nel cuore dei tifosi è il primo, perché non puoi non amare chi gioca 48 minuti ogni sera per rivalersi di una vita di ingiustizie.
