Football Americano Femminile

Girls of Fall

Giocando per i ricordi.

Non è semplice raccontare un’emozione e se lo fosse probabilmente lo farebbero tutti.
Quando scrivi di sport, fai delle foto o una ripresa video ti tornano in mente sempre le parole  di Steve Sabol, il figlio del fondatore di NFL Film.
“Il nostro obiettivo è raccontare una partita a qualcuno che ha già visto tutto come se lo vedesse per la prima volta”. Fichissimo. Punto.
“Proviamoci”. Mai fidarsi della propria vocina interiore, ti farà fare cose che non pensate possibili. Lui continua a darle ascolto, nonostante tutto.

“Dai andiamo? Gioca anche una mia amica.”
Sei perplesso, non hai una gran voglia di vedere il football in Italia, è un po’ come mangiare la carbonara in Thailandia. Una sua amica poi…sarà una uscita dall’ambito parrocchiale, te le raccomando quelle.
Lei ti legge la tua perplessità in viso.
“Non è giusto, come per il calcio, tu ci sei stato, l’hai giocato e io no, voglio vederlo anche se è solo qui…”
Sorridi furbo.
“No, non è al posto del Superbowl o di una partita vera di NFL e di College Football…non ci provare”.
Sorridi ed alzi le mani.
“Ok, andiamo”.
Cosa sarà mai, il campo è vicino casa, hai controllato, un oretta e finisce tutto, quasi indolore.
Arrivate e dovete parcheggiare lontano dal centro sportivo. Smorfia di stupore.
C’è una discreta folla al campo, un po’ più folta della Terza Categoria di Calcio, c’è un certo viavai di gente.
Salite le scale che portano verso la grande tribuna, scoperta ma in muratura. Sai che qui si allena il Pescara Calcio, quindi la struttura è al di sopra dei limiti della decenza. Ti tocca salire un po’ e già imprechi per il caldo e la sudata inutile.
Verde.
Il campo tirato a lucido, c’è perfino la catena per i down e sembrano quasi squadre vere quelle in campo, anche se giocano in sette.
“Vado a comprare le birre, cacciate i soldi!!”
Poco più in basso c’è qualcuno che fa una colletta per comprare le birre a 65 centesimi. Birra e football, non può essere così male.
Ti siedi, le guardi giocare.
Non riesci a spiegare come accade tutto questo, a volte dentro al cuore cresce la voglia di raccontare. Davanti agli occhi s’accavallano immagini e parole e come se pescasse con una rete, nella quale rimane impigliato presente e passato.
Cerchi i dettagli, le sfumature e le parole prendono forma e diventano suggestioni. All’improvviso ti ritrovi a pensare a NFL FILM e ricordi perché ami così tanto vedere queste ragazze giocare. “Boys of Fall”, lo straordinario docufilm di ESPN ti torna davanti agli occhi e nelle orecchie.  Non perché il gioco sia particolarmente spettacolare, perché il talento scorra a fiumi, per le giocate o per il risultato. Ti emoziona perché come l’High School Football, quello che hai davanti agli occhi è il football allo stato puro, senza compromessi. Nessun reclutamento, niente draft, senza contratti. Giocando semplicemente con il talento e il cuore che spontaneamente s’aggrega e diventa una squadra. Giocare per avere dei ricordi.
Il football è uno dei pochi sport che puoi ascoltare, che ha suoni diversi ad ogni giocata, ogni down, ogni break della partita.
Arrivano voci, accenti diversi, s’accavallano dietro alle mie spalle, un po’ confuse e un po’ sopra le righe.
Giocano tutte nello stesso giorno le cinque squadre di questo campionato femminile, quelle non impegnate nella partita assistono dagli spalti.
“Ciao Nonno, vedi ti ho chiamato. Si abbiamo vinto. Grazie, dai ci vediamo domani, promesso”. Una ragazza al telefono con il suo nonno. Da qualche parte nel Nord Italia, qualcuno non ha ricevuto in premio dal suo Dio un nipote calciatore, ma una nipote Wide Receiver, è il mondo che cambia, un raggio di sole alla volta.
La partita è finita, scendete le scale. Ti sei divertito e lo confessi, un pomeriggio da ripetere. Lei sorride e tu di rimando concludi, spostandoti in avanti di qualche passo così che non possa vederti in viso.
“Dovresti provare…hai quello che serve…sparato dentro al cuore”.
Non vuoi che ti veda sorridere soddisfatto, sai di averla sorpresa, ancora una volta.
Sai che se metterà quel casco e farà scattare la clip che chiude il sottomento, tutto cambierà. Per sempre.
Perché “per sempre” accade in questo sport, ad ogni istante, ad ogni down. Un po’ come nella vita, solo con più forza e meno scuse.

“Quando torniamo a Roma ?”.
Ti sei sentito rivolgere questa domanda abbastanza spesso negli ultimi tempi. C’era sempre stato altro da fare, un contrattempo e il viaggio era stato rimandato. Quando Federica aveva scoperto che la squadra femminile di football americano della nostra città avrebbe giocato a Roma, il dado era strato tratto.
“Si parte…presto però, che non voglio arrivare alle 11 del mattino e ci perdiamo la città, quella vera.”
Quando vivi a Roma per lavoro, la città ti entra dentro, diventi parte del quartiere, conosci l’oste, la tabaccaia “stronza”, i tipi cinesi del bar o quelli della colazione di prima mattina. Succede che non t’accorgi che il quartiere ti si è infilato sotto la pelle, perché se lavori a Roma, la capitale ti succhia via il tempo.
Non appena l’abbandoni, ne senti la mancanza e t’accorgi che li sono successe davvero tantissime cose, quelle che di solito accadono nello spazio di una vita. Infatti torni e t’accorgi di non riconoscerlo il quartiere, tante, troppe cose sono cambiate. Altre sono ancora qui e allora ti senti a casa, a tuo agio in uno spazio di ricordi che sai essere solo tuo.
Arrivare all’alba ti da l’occasione per fermarmi a guardare i dettagli e scoprire che si, i ricordi sono ancora tutti li. Getti ancora la tua rete per poi tirarla su e scoprire quali ricordi rimangono impigliati, quelli che resistono alla fatica dei chilometri percorsi a piedi, al sole cocente e alla pioggia improvvisa.
Quando prendi la metro direzione San Paolo Fuori le Mura ecco che ti chiedi che ci faccio qui, in piedi, sudato come gli altri passeggeri diretto in un campo alla periferia di Roma per guardare delle ragazze giocare a football.
Altri ricordi rimangono impigliati nella rete.
Bitburg. Germania Ovest. Un paio di vite fa.
I Barons, il rumore dei caschi. Il tonfo del colpo del casco contro la protezione. Uno sport che si chiama come quello in cui sei bravo ma del quale non sai nulla. Come essere capitato in un universo parallelo, dove tutti sanno praticare lo stesso sport tranne te. Da lontano il ding, della mazza d’alluminio che colpisce una palla da softball e le grida delle ragazze quando la palla va oltre la rete.

Già le ragazze giocano a softball, così avevi imparato in quell’universo parallelo del quale avresti dovuto imparare solo la lingua ed è finita che hai portato via pezzi di una cultura e una passione.
Quindi che ci fanno delle ragazze, con casco e paracolpi in una età nella quale di solito si smette di praticarlo questo sport?
Si mettono in gioco.
Smettono di essere uguali a se stesse e alle loro coetanee. Smettono di essere una statistica e c’è da essere orgogliosi anche solo così.
Guardarle è come assistere ad una partita tra due High Schools non troppo talentuose, al rallentatore. Hai il tempo di guardare il WR nello slot e capire da come posiziona le braccia se sarà o no un passaggio. Non è che se ne vedono tanti di lanci però, peccato. Quei pochi che ci provano catturano la mia attenzione.
Non c’è un tabellone con il punteggio e non c’è un roster pubblicato o i nomi sulle maglie. Queste giocatrici diventano il loro numero, in una mistica numerica degna di Dan Brown. Nel calcio tu puoi essere “un numero dieci” in questo, quando diventi particolarmente bravo, quel numero ti finisce sulla pelle, tatuato e diventa solo tuo. Il confine tra te e il tuo numero diventa più labile e poi sparisce.
Il #15 bianco ha un braccio niente male e quando Federica ti chiede come mai lanci sempre al #6 ti sorprendi ad usare il termine “go to receiver”.
Lei ti guarda e sorpresa ti apostrofa: “Facile così…”. Fosse davvero così facile. Infatti non dura molto, iniziano a seguirla marcandola stretta e l’altro ricevitore l’#85 ha ancora troppo paura della palla.
Già. Hai visto ragazzini muoversi in campo “perché è così che si fa”. Loro devo pensarlo quel movimento e ai miei occhi c’è ancora maggiore coraggio e poesia in un gesto che non nasce dal puro talento ma dalla forza di volontà necessaria a piegare il tuo corpo verso il tuo talento.
Non conosci quasi nessuno in campo, tranne la #47 delle Lobster, in realtà la conosce Federica, questo al momento è un dettaglio trascurabile.
“Karen…il casco…grida un ragazzo dagli spalti”.
Sorridi.
Chiedi a Fede. “Il ragazzo vero?”. Sorride e annuisce.
Avrebbe dovuto affondare il casco in mezzo ai numeri del suo avversario, lei cerca d’abbracciarlo, il corridore, si libera facilmente per un bel guadagno. Impara in fretta il numero #47, deve se vuole tenere incollate intorno a se le sue compagne di squadra. Non c’è posto per la paura, questo è un gioco semplice in cui ti puoi perdere e devi soltanto reagire. Quando vedranno il tuo sudore, le tue compagne ti seguiranno.
Sugli spalti c’è la birra, le bimbe che sorridono, le mamme tifose. Non le vedi incitare i loro piccoli ometti ma le ragazze con le scarpe verdi. In fondo tutti sognano di giocare in un campo con le luci e il bar. Importa davvero lo sport nel quale riesci a farlo?
Torni a guadare l’incontro. La partita prosegue. Ripensi alla giocata che hai visto nella partita precedente.
Handoff centrale, per il runningback delle Furie, #21.
Legge il blocco della sua linea ed è nel backfield avversario, dal suo lato cieco arriva la #99 delle Blackmarines. Sotto il caso rivedi il makeup e penso a Pris, il replicante protagonista di Bladerunner.
Sicura, si prepara ad affondare il tackle.
Click. #21
Finta verso l’esterno, a sinistra, il tuo piede sinistro scivola un po’. Il cuore batte forte e sai dentro di te che puoi farcela.
Click. #99
Il casco s’abbassa, è tua non puoi mancarla. Va verso l’esterno, la chiudi verso la linea laterale.
Click. #21
La macchia nera diventa più grande. Sposti il peso, tutto sulla gamba destra. Il tacchetti affondano nel terreno, cerchi d’artigliare ogni centimetro per cambiare direzione. Non puoi tradire le tue compagne ti hanno consegnato un occasione. Spingi con tutta la forza che hai.
Click. #99
La prendo. Le mani a due passi da lei.
Click. #21
Rotazione. Il mondo gira alla tua velocità ora. Le mani della tua avversaria ti sfiorano mentre scivoli fuori dalla sua presa. Libera.
Click.
Endzone.
Torno a guardare le Lobster.
La difesa s’inginocchia e la partita finisce. Già la difesa. Sorrido.
Il ragazzo e il suo striscione “GO LOBSTERS”, plastificato. Lei s’avvicina, il #47 stampato sulla maglia, si sfila il casco, sorride e alza il pugno. Vittoria. Lui prova a rimproverarla per qualche giocata.
“Ngulamanmete”, sorridendo lo saluta e s’incammina verso gli spogliatoi.
Avete percorso 16 chilometri e 22 mila passi per arrivare qui, è ora di tornare a casa, con tanti ricordi in più.
Verso la metro, verso l’autobus, incontro alle luci che si spengono dentro ad un altro viaggio, sorridendo.

Fa un caldo atroce, umido e le luci di questo campo di periferia ti randellano gli occhi. Verde verso il basso, nero verso il cielo. Voci e grida.
Gli spalti sono vuoti, bassi, troppe formiche e questo grigio ti infastidiscono,  eppure qui davanti ai tuoi occhi c’è uno spettacolo che in pochi conoscono e in molti dovrebbero fermarsi a guardare.
Sposti un po’ la testa e c’è un dugout, non una panchina qualunque ma una in muratura, parzialmente affondata nel terreno. Cerchi meglio con lo sguardo, trovi dei sacchetti, una montagnola più alta. Fatichi a realizzare, qui…davvero nella mia città, a portata di mano il mio passato è tornato a splendere, tornano gli odori, i rumori e io non sono più soltanto qui e non sono solo.
Un campo da baseball a due passi da un terreno per il football americano, non ti spieghi come sia possibile che vent’anni passino all’improvviso, con uno sguardo. Le luci sono al loro posto, gialle. Le ombre che nascondono gli angoli lontani, solo l’odore dell’erba manca, questa è plastica, ma non t’importa davvero.
Come se due foto si fossero fuse, l’una presa dalla tua memoria, l’altra scattata dai tuoi occhi.
Ti avvicini alla costruzione in muratura, con i mattoni rossi o forse no. Ti fermi e attendi, i tacchetti sul cemento.
Silenzio.
Tac, Tac…Tac…
Arriva quel rumore familiare, accade davvero.  Non lo stai sognando, ti blocchi, volti leggermente la testa.
Le voci nello spogliatoio.
Il casco, l’armatura, esci. Non ti volti, la testa bassa. T’aggiusti gli spallacci, muovi la testa cercando di sciogliere i muscoli del collo, sei nervoso, come sempre.
L’immagine sfocata di te si confonde, ancora quel suono, i tacchetti e il cemento, quel ritmo, quella musica. Nella destra stringe il suo casco, concentrata, si aggiusta i capelli lunghi li nasconde dentro una bandana, cerca di infilare la lunga coda nell’armatura, si ribella e non vuol saperne di stare li.
Stringe leggermente il pugno, passa le dita sul palmo. Respira lentamente, quasi a cercare di conservare l’aria nei suoi polmoni.
Tac, Tac…Tac e swoosh…
Un fruscio, i tacchetti fanno presa sull’erba, ti fermi e ti guardi per un attimo i piedi. Ci avresti mai pensato prima? Hai le stesse scarpette dei calciatori, forse le hai scelte un po’ sgargianti, solo un po’, un vezzo che ti sei concessa. Ti fermi ha guardarti le unghie, perfette, lo smalto dello stesso colore del baffo sulla tua scarpa, non dicono che questo è uno sport di dettagli?
Sorridi ci sono le tue compagne, sono cinquanta metri più in là, già sul campo. Vi concedete il tempo di raccontarvi un pezzetto di vita, di quella che vi siete lasciate alle spalle non appena varcato l’ingresso del campo.
Alzi lo sguardo verso i tralicci, cerchi la luce dei riflettori. Un lampo.
Venerdì sera, le luci sono allo stesso posto, ma c’è silenzio questa volta.
“Break!”.
L’huddle si rompe e non riesci nemmeno a ricordare che schema hanno chiamato. La linea prende posizione, trotterelli ansioso verso lo slot interno. “Sei, troppo piccolo, sei troppo magro.” Quelle parole e quelle voci nella testa, cerchi di tenerle lontano dal cuore.
“Red 81…Red 81…”
Al terzo segnale, lo snap. Quello riesci a ricordarlo. Ti pieghi in avanti, le braccia stese, chiudi i pugni come a controllare che le dita funzionino ancora, che ci sia qualcosa dentro ai tuoi guanti. Guardi verso la sideline, l’81 è pronto a correre la sua traccia.
“Bandit!, Bandit!”. Il segnale di un audible, il tuo quarterback sta cambiando la giocata, arriva tutto ovattato nel casco.
“Black 8!”. Una pausa che dura una vita, ti guardi i piedi, sforzandoti di non guardare. Speri di aver sentito male, il cuore pompa impazzito e lo senti battere nelle orecchie. Guardi verso gli spalti, verso quei lunghi tubi di alluminio assiepati di gente e per una volta, sei felice che nessuno ti conosca.
“Black 8!”.
Non ti sei sbagliato è il tuo numero, una hook facile facile, in mezzo al campo.
“Hut!”.
Parti in avanti e senti il terreno scivolare via sotto le scarpe, le tue braccia sulle spalle del tuo avversario e lo sposti via, come se non avesse peso. Provi a contare i passi, a definire lo spazio ma è tutto confuso, sfocato. Sono i suoni a rimanerti scolpiti in testa.
“Pass! Pass!” Urlano dalla sideline e ti volti. Non hai nessuno intorno e fai segno di essere libero. La palla arriva, fai due passi e salti. Senza pensare, reagisci e la senti fermarsi tra le tue mani, sulla tua pelle sotto ai guanti tremi la stringi, cerchi un appoggio per voltarti e correre.
Bianco.
L’aria ti esce dai polmoni, come se qualcuno avesse premuto un pulsante sulla tua schiena e tu ti fossi sgonfiato. Ti senti come una di quelle bambole di pezza di tua sorella.
L’odore dell’erba, sul tuo casco, sul tuo naso. Qualcosa ti comprime il petto, come un bozzo nel terreno. Cerchi di capire se sei morto e se il paradiso odora di sudore ed erba bagnata.
“Damn I cannot believe he is a tough…” Una voce dall’alto.
Di una cosa sei sicuro, in Paradiso non si parla inglese.
“Coach…”, l’accento è quello sbagliato. Ti guardi intorno. Chiudi di nuovo gli occhi e ascolti.
“Devo restare nel box anche se corrono una reverse?”
Questa è la lingua dei tuoi genitori è l’accento della tua terra.
Sorridi. Sei a casa.
Le osservi.
Allenarsi piene di lividi, alzarsi e tornare alla carica. Chiedere, ascoltare. Hanno voglia d’imparare e ti chiedi da dove venga questo desiderio, come sia possibile. Sei un tipo curioso, dicono che la curiosità uccide, ma non te ne importa davvero.
Hanno coraggio, da vendere. Di quello che non si può comprare, di quello che non è frutto solo dello spirito di emulazione, della voglia di competere. Molte hanno fidanzati, ex fidanzati, compagni che giocano nella squadra maschile. Non basta a spiegarti perché abbiano deciso di mettersi casco a paraspalle. Non basta la voglia di competere, hai tante domande e così poche risposte.
Sei cresciuto in un posto dove questo sport si smette di praticarlo a livello agonistico a 17 anni, in quegli anni quando sai di non avere le abilità atletiche per continuare, dai tutto quello che hai, perché non ci sarà un’altra occasione, quegli anni, quei venerdì sera, sono tutto quello che avrai, per sempre.
Cerchi i loro occhi, cercando di capire cosa le spinge ad iniziare a praticare questo sport quando, dove questo è uno sport che conta davvero, a quell’età si smette di giocarlo.
La risposta la trovi lì, davanti ai tuoi occhi in mezzo al campo.
Il fullback delle Lobsters gioca anche Linebacker, preparano l’ultima partita della stagione, come sparring partner sette ragazzi della squadra maschile, qualcuno ha visto anche qualche stagione di troppo.
Non manca l’entusiasmo.
Provano la difesa.
Corsa esterna. Lei concede almeno 15 kg di muscoli e 15 centimetri al running back. Taglia il campo incontro al suo avversario come se esistesse un lungo tunnel che la porta direttamente a destinazione, arriva dal suo lato cieco e…

Bam!
Lui vola fuori dal campo. Zero Yarde. Lei si volta, trotterella verso il centro del campo e il suo huddle.
“Intangibles”. Intangibile, quel fuoco che ti brucia giusto in mezzo alle pupille, che ti fa gettare il cuore oltre l’ostacolo, che ti fa colpire duro il tuo avversario e fermarti in mezzo alla strada a dar da mangiare ad un gattino abbandonato. È quello che non puoi spiegare a parole, ma che senti sulla pelle, è li e se lo hai dentro, lo puoi riconoscere.
Motel Amico, Hotel Amico.
Lo stesso luogo a far fa sfondo a due storie molto simili. È un luogo di partenze, davanti l’autostrada. Viaggi con pochi compagni, nemmeno sufficienti a formare una squadra. Un Pescara, ripescato, con un organico incompleto, chiamato a giocare in Serie B, che si da appuntamento proprio li, scattano qualche foto, immagini che ora appartengono a tutti, perché da li è partita una favola.
Oggi, da questo stesso parcheggio, parte un’altra squadra, in cerca di una storia da raccontare, che è nascosta dentro al cuore, da tirar fuori e regalare alla storia, ad un almanacco speciale, quello dei loro ricordi.
“Hai la borsa con l’attrezzatura?” chiedi a Federica. “Che l’hai portata a fare…non puoi giocare”. Lei ti sorride furba e ti liquida con un “Non si può mai sapere”. Andare oltre il possibile, per vedere l’impossibile. Tu non puoi che sorriderle di rimando.
I borsoni s’allineano con il loro tonfo sordo, quel metallo attutito contro l’asfalto, con il sole che picchia come un fabbro impazzito.
#62
“Ci siete solo voi, cioè non c’è qualcuno di utile? Cioè qualcuno che può giocare”.
Non si va in battaglia da soli, perché il coraggio si moltiplica quando passa da un cuore all’altro e tu da sola ti senti un po’ persa, un po’ più lontana da casa. Quelle parole non ti feriscono, sono impastate di sudore e dolore, di lacrime e sorrisi. Sono la sua identità.
Sei il passeggero di questa storia, quello con la penna e le parole per raccontarla.
Ascolti i chilometri consumarsi tra le pagine del loro playbook. Sorridono tra i battiti di un cuore che corre un po’ più in fretta, scatta avanti e vorrebbe che fosse già tutto finito. Coach E. con il suo libro di Grisham, prova a portare la loro mente lontano con la forza della ragione, perché se non si godono il viaggio priveranno il loro corpo del riposo.
“Playing for Pizza”. I visi si tirano, i sorrisi si sforzano e dietro a questo pullman che punta a nord nemmeno il tentativo di Coach L. ha successo. Niente uomini, nessun amore, nessun altro argomento, solo football.
Bologna ti arriva incontro con i suoi ricordi, i suoi viaggi in treno da Roma, gatti e amici, emozioni condivise d’avventure senza tempo. Un giorno di felicità per noi è un giorno di profonda tristezza per chi ha diviso la sua vita e il suo tempo con te Signora YU, per una compagna felina di vita. Silvia, noi siamo li con un pezzo del cuore, perché quando ti accorgi che le parole non bastano, provi a coccolare i tuoi gatti al ritorno pensando a lei, come se potessimo trasferirle il nostro amore, almeno un po’.
Butti giù nel cuore meglio che puoi questo boccone amaro, come se quando accade qualcosa ad un essere indifeso potessi accollartene tu il peso, perché ci sei già passato, perché sei sopravvissuto ed hai vinto e dentro di te sai che puoi farlo ancora. La Signora YU ha perso il controllo del suo piccolo corpo e tu sai…esattamente…cosa vuol dire.
Per un attimo ti concedi un pensiero per questa meravigliosa gatta, per il suo essere nel tuo cuore, una coccola alla volta.
Le osservi mangiare il loro riso, qualche boccone, forse solo perché devono. Sposti un po’ la testa e scorgi quella mano maligna, spuntata dal nulla che le stringe lo stomaco, li avverte quei dolori in punti del corpo che non ricordava di avere e ascolta quei ricordi che finalmente l’hanno raggiunto qui, sotto questi alberi. Vorresti urlarle che solo un anno fa, qui vomitava e veniva sconfitta, dalla stessa squadra che dovrà affrontare oggi, qui, un anno fa.
Rimani in silenzio, questa e la loro storia e tu, oggi sei solo di passaggio e vuoi essere discreto, il più possibile.
Hai il tuo taccuino, ti volti e le guardi ripetere ancora qualche movimento, giocano come nel giardino di casa e nemmeno s’accorgono di chi sotto la canicola s’avventura in flessioni e piegamenti a torso nudo.
Sedute davanti a te, tre donne, tre giocatrici di football e scopri che #1 #13 e #66 sono un terno secco vincente sulla ruota del football.
“It’s good for showing up, not for football”, il LB dei Seaman non è all’estero da abbastanza tempo da aver imparato la regola d’oro. Non sai mai chi può comprendere quello che dici.
Sorridi, accadeva anche a te, ma quella lezione l’hai imparata tanto tempo fa.
#47
La panchina, stesa a guardare il cielo, a cercare di convincere il cuore a non bussarti nelle orecchie, a radunare la forza che ti ha portata fino a qui. A due passi da te su un panchina a guardare lo stesso cielo, c’è il #27, sembra distrutta, non c’è il suo sorriso, non ci sono i suoi “one hand catch”, rimani in silenzio a guardare la giocatrice e la donna scivolare l’una lontana dall’altra. Le lascia che quello spazio si riempia di dubbi e di paura.
Paura.
Esiste il pericolo, non la paura. Quella è una nostra invenzione, una barriera che creiamo quando ci preoccupiamo di fatti che non potrebbero mai accadere e che forse non accadranno mai. Il pericolo, quello è una benedizione, ci mantiene vigili, attenti, pronti a reagire.
Palloncini e lacrime, voci rotte e una vita tagliata troppo corta, perché ventisei anni non sono abbastanza.
Il vento maligno di una malattia senza pietà.
Erica.
Vorresti vedere un adesivo su quegli elmetti color aragosta, un nome, E.
Per ricordare il privilegio che avete, ogni giorno, il dono d’indossare quel casco, serrarlo, mettervi in posizione e scagliare il vostro cuore oltre la linea. Per ricordare che la vita, la vita di tutti, è fragile.
Ci sarà un momento nella vostra vita in cui cadrete e quando accadrà, perché accade a tutti, sentirete un dolore senza fine spingersi giù in quel posto del cuore dove nascondete la donna che siete e li, in quel piccolo luogo speciale, verrete messe alla prova. È quel dolore, in quei momenti che ci permettono di comprendere chi davvero siamo.
“This is what football is all about”, ancora quella voce da Dartmounth, da oltre oceano.
Vero.
Gazebo e birra, per riportare i pensieri verso il campo, guardare delle ragazze che si battono anche solo per cancellare quello zero dalla casella delle vittorie. La partita scivola via, non riesci a rimanere concentrato a fermare i pensieri, a rimanere nel presente quando il futuro è li che ti aspetta, ogni secondo più vicino.
Scendono in trincea, sistemano il casco, aggiustano i paraspalle e poi il terreno scorre sotto i loro tacchetti. #25
Sei nervosa vero?
Hai l’impressione di aver dimenticato come si gioca. Dubiti di te, ti spaventa essere grande anche solo un po’ , perché l’avversione verso la sconfitta è più forte del suo desiderio di vincere. L’hai consumata la tua “qb wristband”, quante volte hai scritto e riscritto gli schemi? Dovresti averli tatuati sulla pelle ora. Le farfalle nello stomaco e quella voglia di dimostrare che sei capace, che puoi farcela sulla mani e sulla lingua.
Combatti e quando arretri non l’accetti, il “no” non è una risposta che riesci a comprendere e allora le parole sfuggono al tuo controllo, si riversano in campo e l’avvelenano. Lì in quel preciso momento la partita inizia a scivolare un po’ verso l’altro lato. Guardi dalla linea laterale e vedi la #18 in campo fare a pezzi la difesa, un passaggio dopo l’altro, un down alla volta. Vorresti spaccare il mondo ma il tuo corpo si rifiuta di seguire i tuoi pensieri. Quando lasci che le lacrime scorrano, ritrovi te stessa, smetti di ascoltare le voci dalla linea laterale, le parole delle tue sorelle e quelle delle tue avversaria e solo allora una vocina tenue dentro di te sussurra… “puoi farcela, uno snap alla volta…ti guardano…non deluderle”.
Le raduni e loro ci credono.
#1 #13 e #66 è un numero telefonico, è un prefisso per la vittoria, è il cemento della linea, è la spensieratezza di chi guarda al futuro attraverso gli istanti del presente.
È quel tackle “for a loss”, quel colpo al loro #48, quel livellarla al suolo che scava la trincea nella quale l’una al fianco dell’altra resistete, difendete quel bottino di otto punti che vuol dire RoseBowl che vuol dire FINALE. Coprire quello spazio fuori dalla linea è mandare un segnale, alzare un vessillo intorno al quale radunarsi. In quell’impatto è come un battito del cuore, più forte degli altri, per urlare che questa è la vostra occasione, vostra. Devono venire a prenderla se la vogliono.
Loro rispondono e lo fanno con forza, corrono incontro a te, ti saltano e volano in touchdown.
Solo un punto le separa dal vostro sogno, un punto che può durare una vita, un solo punto. È tutto in quella soluzione di sali minerali che hai sciolto nell’acqua per le tue compagne, è in quel dono gratuito che sta nascosto dentro ai gesti semplici e nello spazio tra quei due sei. Lì, fai la differenza.
Una chances per essere campioni, questo vi regala il ginocchio malconcio del vostro running back, esce in lacrime, stringe i denti e butta giù il dolore, per tenere la palla lontano dalla vostra endzone, per far scorrere il cronometro. Per conservare quel punto, quell’unico punto. Tra i granelli di quella bibita qualcuno ha nascosto quel punto.
Scorri la line di difesa, tra le fessure dei caschi trovi gli occhi del #13. Riconosci quel bagliore, nei suoi gesti silenziosi senti quella voce, quel bruciante desiderio di migliorare, quel desiderio di farcela ad ogni costo, quella voglia di opporsi alla marea “nera”, di andare incontro alle onde, ancora e ancora e ancora.
Il football è come la vita, solo che accade tutto più velocemente.
Vero #47? Troppa fatica, troppi sacrifici, troppi escoriazioni sulle braccia e sulle gambe, troppe ferite in battaglia per mollare ora. Troppo dolore calato a fatica in gola, che brucia nello stomaco.
“Datemi la palla, questa è mia”. La vuoi, ancora una volta per una manciata di yarde alla volta.
Per opporre il tuo corpo tra la palla e le loro mani, tra la vittoria e la sconfitta.
“Siete sicuri di questa cosa…siete sicuri?” Una voce dal campo agli spalti, quando la matematica diventa una opinabile, quando le certezze nei numeri vacillano. “Si è sicuro…basta che non vincano con più di otto punti…”. La tensione di una certezza che vacilla per tutti.
“Going to State”. Ho sempre desiderato scriverlo e questa credo che sia l’occasione giusta. Quel fischio che libera tutti, che stacca un biglietto per Ferrara, per diventare campioni.
Gli abbracci, i pugni al cielo, i baci e la tensione che scivola verso le scarpe, diluita dal sudore, le avversarie ad un punto dal loro sogno. Non è bastato l’aver tentato, essere state le migliori in campo.
Quelle lacrime che hanno riempito il casco di tutte, quelle che bagnano la vittoria, annebbiano la vista e finisce che non si rendono conto di quello che hanno fatto.
Quei musi lunghi, quella rabbia trattenuta a stento, quelle parole frettolose. È nella sconfitta che si misura la grandezza di una squadra. Le guardi senza riconoscere le ragazze che si divertono in allenamento. Le ascolti mentre coprono di parole inutili i loro sogni. Vorresti poterla raccontare al contrario questa storia, per lasciare che vedano non dove sono ora, ma indicare quel lontano punto di partenza. Vorresti riuscire a rimettere nel loro cuore quel sogno, quell’idea che il football è un gioco composto da tanti piccoli momenti di presente, non lasciare che perdano la gioia delle memorie che avvolgono ora il loro cuore. Se dimenticano la gioia che c’è nell’inseguire il proprio sogno, non sono diverse dalle avversarie che hanno sconfitto sul campo, che si sono lasciate alle spalle.
Guardi fuori dal finestrino, il bus punta verso sud, ti riporta a casa. Guardi il cielo che si colora di rosso e poi si sfuma appena un po’, come se fosse li a salutare le ragazze che tornano a casa, a ricordare che c’è basta voltarsi in una direzione diversa quello che mancava ad una giornata perfetta. La stanchezza spegne lentamente le voci, scivola via la tensione e una voce si alza, ferma e decisa.
#1 “Ho già perso una finale, ma ero una ragazzina, ora sono una donna. Ho pianto per quattro giorni, non potrei sopportarlo ancora. Siete avvisate, tutte.”

Home of the Lobsters
Ci sono storie che crescono e si raccontano di notte, che vivono alla luce artificiale dei riflettori, che si nutrono di voci scomposte, di pezzi di ricordi e di sguardi rubati.
Sei ancora seduto qui, su una panchina di questo campo sulle colline della tua città. Le ragazze sedute sul terreno, poco lontano l’ex capitano degli special teams dell’Università del Missouri s’incontra con pezzi della squadra maschile.
La sconfitta, quel non essere più “undefeated” sembra ergersi dal terreno come una pietra tombale. In tanti provano a nascondersi nella sua ombra, a cercare ragioni o ad inventarne se necessario, dimenticando che in tutti gli sport, a qualsiasi livello, la sconfitta è una delle due possibilità, ogni volta che si calzano degli scarpini e si calca un campo da gioco. Nel football più che in qualsiasi altro sport, non si cercano scuse, si analizzano i motivi, non si punta il dito contro gli altri, si interroga il proprio corpo, si mette in dubbio la prestazione personale.
Cerchi con lo sguardo un muro, la facciata di una scuola superiore con la sua enorme scritta blu “Home of the Barons”.
Delle voci lontane ripetono di spostare il peso, correggere i piedi, le mani. I dettagli. Il dolore in parti del corpo che ignoravi di avere, i lividi, il rumore del casco contro la tua armatura. L’impatto.
Rialzarsi, tornare in linea. Pronto.
Ripetere lo stesso gioco, ancora e ancora, perché ha un senso, da qualche parte, anche se ora non riesci a capirlo, stai facendo la tua parte e tanto basta.
Vorresti chiedere perché
Perché ti fanno correre e sbattere contro lo stesso uomo, perché lanciano verso di te anche se sei marcato da un muro con le gambe.
Il sudore negli occhi, il dolore nelle braccia.
Non chiedi perché.
Nessuno lo fa.
Senti ancora dolore dentro a quei pensieri.
Quasi uno spasmo, poi nulla. Solo i tuoi ricordi.
T’allontani perché non riesci a comprendere, per te la tradizione, l’essere un pezzo di una storia, avere sulla pelle ancora pulsanti pezzi di “Friday Night” sono ricordi preziosi, indelebili.
Il profeta di quella religione chiamata football è il tuo allenatore, non metti in dubbio le sue parole, non c’è posto in un mondo fatto di tanti istanti di presente per l’incertezza. Già, questo l’hai imparato a suon di lividi e colpi durissimi. Il dubbio è una malattia che s’insinua nei muscoli, che avvelena ogni fibra del tuo corpo. Ti fa esitare.
Dimentichi che lì, una volta indossato il casco, tu sei il suo messia, porti il messaggio del suo football, lui ti indica la terra promessa ma tu, devi cercare dentro il tuo cuore la forza di seguirlo.
T’allontani da quelle parole velenose.
Mani. Gesti.
T’accorgi d’avere impresse in un angolo remoto dei tuoi ricordi istantanee di un te giovane, incosciente e pieno di se. Lo vedi seguire un allenatore molto simile a quello che hai davanti a te ora,  bersi qualsiasi parola, ogni movimento, con quel desiderio che ti brucia dentro di fare del tuo meglio, perché sia orgoglioso di te, per non lasciare soli i tuoi compagni.

Non succede…ma se succede…
Il tuo odio per qualsiasi cosa sia vagamente AsRomaMerdagiallopiscio si è radicato profondamente, troppi anni nella capitale e alla fine, non puoi che disprezzarli. Gli riconosci però la capacità di avere una tifoseria capace di scatti d’ironia unici. Allora rubacchiargli una idea ti sembra meno scandaloso.
Hai paura di dimenticare qualcosa, che il succedersi del presente cancelli qualche sensazione, si porti via qualche parole, allora le hai chiesto “Che dici se scrivo un pezzo oggi? Ho paura di dimenticare, nonostante gli appunti…nonostante tutto”. Lei ti ha sorriso. L’hai incalzata “sei sicura, sicura?”. Ha annuito.
Hai preso le parole e hai cercato di metterle insieme.
Ti sei svegliato nelle ultime due settimane, preoccupato di non poter vedere la fine di questa storia, che i tuoi occhi accorciassero il tuo tempo a disposizione. Il tuo cuore ha pensato a come compensare e ti ha regalato un sogno. Uno di quelli tutti strani, pieni di nebbia e luci bianche nella foschia, che non si sa mai dove andare. Inizia con un grosso cronometro che segna 00.15 e arretra, come il quarterback avversario. Lancio lungo.
Uno scricciolo con la maglia numero #5 sulle spalle, guarda in alto e poi alle sue spalle verso il giocatore che corre lontano. Gli occhi ancora sulla palla. La guarda, la lingua le spunta leggermente tra i denti. Alzano insieme le braccia. Di nuovo l’immagine va in pezzi come i tuoi occhi, un lampo di dolore e torna tutto immobile a fuoco e forse hai quindici anni di nuovo e c’è lei, la maglia con il numero #29, in ginocchio, nella endzone, come Tim.
“Giocare la tua prima partita in Coppa dei Campioni e segnare il gol decisivo”, un sorriso furbo. “Non è questo quello di cui sono fatti i sogni?”, la voce di Trevor Francis, il suo colpo di testa, la finale di Coppa dei Campioni, la sua prima presenza, non come il primo centravanti da un milione di sterline, ma come ala destra. Il suo sorriso quando ricorda quell’evento è quello che vorresti vedere in un afoso sabato di luglio. Non importa se il tuo cervello di dice che non è possibile, come è quella frase che ti piace tanto? “Il cuore conosce vie che la mente non sa?”, qualcosa del genere e allora?
Mi piacciono i sogni.
Zara.
Il ragioniere biondo è di spalle e sembrano scolpite in un pezzo del cielo, organizza e tesse trame e sposta il peso da una gamba all’altra, parla raramente e quando lo fa, le altre ascoltano.
Il calendario, le domande sciocche, “sono magre per essere giocatrici di football…”e tu che ti chiedi se hanno confuso questo sport con il sumo. Lei che diventa piccola piccola, perché si vergogna e le ci vuole una birra anche se nel calendario si vede più il suo fondoschiena che il suo viso. Le parole e i sorrisi, quel “voglio vincere lo scudetto” che s’allarga lungo le spalle e arriva fino alla pancia. Diventa uno scudo, da mostrare orgogliosa, per poter festeggiare appesa ad un ramo in pineta non voler scendere più perché questa volta non sei tu ad essere sottosopra ma è il mondo ad essere capovolto. L’hai capovolto tu, perché t’importa, con ogni fibra del tuo corpo, t’importa ad ogni battito degli occhi, giù in fondo fino al cuore. Perché in questa città un titolo di Campione d’Italia non si vede facilmente. Vorresti vederle premiate dal primo a riuscire in questa impresa, nel Maradona della Pallanuoto, nell’unico e solo Manuel Estiarte, l’uomo capace di camminare sull’acqua. Già perché altri scudetti qui, se ne sono visti nel calcetto, maschile e femminile, ma con altri numeri.
Le hai viste ricevere le muove maglie, quelle realizzate per la finale e preoccuparsi subito del prezzo, perché è dalle loro tasche che escono i soldi per acquistare l’attrezzatura di gioco, niente sponsor e niente boosters.
Il loro pub che non è solo un luogo di ritrovo, uno sponsor, è casa. Dove le vostre avversarie entrano e non mangiano perché quella, quella è casa vostra. Le guardi e cerchi le parole che non hai per tranquillizzarle, ti disperi ma non le hai…mangiano e parlano e senti il rumore del loro cuore, batte forte, un po’ di più ad ogni ora che passa.
La trincea in partita è larga e c’è sempre posto per una sorella. “Come non giochi…a me basta un gioco…per prendere fiato…”. Ti vorrebbe davvero li, perché sei importante e certe cose non si fingono, nemmeno a far pratica si potrebbe…
Vorresti essere capace di abbracciarle tutte, con un sottile stelo di parole: “Grazie…questa è una stagione che non dimenticherò”
In fondo a questo lunga striscia di parole, rubacchiando un po’ di spazio, vorresti scrivere, con caratteri minuti, in corsivo…  “non succede…ma se succede.

I ‘ve seen a miracle…
Un bus ti portava a scuola, un bus ti ha portato a Roma per tanti anni, uno ti conduceva al lavoro, c’è sempre stato un maledetto bus nella tua vita. Già, ma un bus con l’aria condizionata.
Sei stato a Roma, poi a Bologna. La finale del campionato, il Rosebowl è a Ferrara, non ci pensi davvero, come potresti mancare, si va fino in fondo, l’ultimo capitolo di questa storia si scrive li.
Nemmeno pensi sia possibile che questa volta non ci sia aria condizionata a bordo.
Una lunghissima ora di viaggio sulle spalle, hai questa dannata sensazione che qualcuno tenti di lessare la squadra, il gruppo di genitori, fidanzati e amici che le sta seguendo in questa folle trasferta. Cerchi di leggere, sbirciando negli occhi le giocatrici, cercando di ascoltare il suono delle loro voci.  Sembrano più rilassate, un po’ come quegli anatroccoli che nuotano nei laghetti, sembrano avanzare lentamente, con calma, ma sotto la superficie le loro zampette si agitano a mille chilometri all’ora.
Autogrill. Qualcosa da mangiare, sgranchirsi le gambe. Respirare dell’aria fresca e maledire l’afa assurda, le macchie di sudore sui sedili di pelle e le vecchine che scendono dal bus di fronte al tuo con lo scialle sulle spalle. Una speranza, che finisca presto. Il lungo torpedone bianco rimane immobile, non puoi che sorridere, in fondo nel football come nella vita nulla è facile, nulla ti viene regalato e quindi perché dovremmo procedere senza problemi? Inizia a chiederti se un folletto birichino si stia divertendo a regalarti gli elementi di una storia che non puoi non raccontare, una storia fuori dal comune. Attendi con gli altri, l’arrivo di un nuovo bus, appoggiato ad una pompa di benzina, le guardi mettersi lo smalto, lanciarsi il pallone e sorridere. C’è un angolo nascosto del tuo cuore che spera, battendo fortissimo, che si regalino un finale da sogno, che per una volta i numeri non siano importanti, che insieme possano attraversare questo ultimo ostacolo e portare a casa il trofeo per il quale hanno tanto sudato, soprattutto oggi.
Quando lo vedi parcheggiare, speri di esserti confuso, che quella che farebbe far bella figura ad una corriera anni 50, non è il mezzo di trasporto per la squadra. Ti siedi, chiudi gli occhi ed apri gli sfoghi dell’aria condizionata. Il bacio del deserto, appiccicoso, sudaticcio e maleodorante. Quando pensi che non possa andare peggio, ti ritrovi baciato dal sudore forzato sparato a palla sulla tua faccia mentre trascorri quattro ore seduto sui semiassi non ammortizzati di un veicolo paleolitico.
Ti senti in colpa, per tutto il viaggio. Hai il pass per stare sulla linea laterale, non l’avevi nelle partite precedenti quando eri sugli spalti. Se portasse sfortuna?, ti ricordi poi che non credi nella sfortuna ma nel duro lavoro e nel battersi fino alla fine e un po’ oltre. Nella borsa c’è la maglia di Tim Tebow, quella dei Denver Broncos, arancione come le Lobsters. Hanno bisogno di un miracolo, di ogni aiuto possibile anche dall’Alto, non ci credi tanto…ma che male può fare?. Tim, che ha costruito la sua fama con vittorie che nessuno pronosticava, con quella capacità di condurre i suoi compagni a successi in cui nessuno credeva, in quegli ultimi istanti della partita, quando tutto sembra perso, lui ci crede e fa si che gli altri ci credano con lui.
Il display del tuo Note s’accende. Marc ti ha scritto. Ha condiviso con te la sua mattinata, quella strana atmosfera che si respira nella sua casa, quella sospensione della quotidianità che avviene solo quando qualcosa di speciale sta per accadere, il momento speciale incastrato in mezzo a momenti normali.
Leggi e t’immagini il suo biondissimo scricciolo che lo guarda confusa e sorpresa, prova ad intuire come mai il suo papà possa essere felice e ansioso allo stesso tempo, cosa c’è oltre questi minuti di cosi speciale da cancellare le solite parole per fargliene ascoltare di speciali.
Quando Federica ti indica il campo, un po’ rimani deluso, sotto il sole cocente nel mezzo del nulla, una lunga fila per entrare e fortunatamente hai registrato degli accrediti stampa e salti la fila, riesci a trovare il tempo per sederti e per una birra.
Al campo attendi un po’, prima di calcare il terreno di gioco, prepari la macchina fotografica e cancelli le vecchie foto, il passato non conta. Entri. Vai verso la linea laterale, ti fermi sulla trenta yarde. T’inginocchi e strappi un ciuffo d’erba ingiallito dalla canicola. L’odore del campo, erba e gesso.
Nelle endzone ci sono i nomi delle due squadre che si contenderanno il titolo, a metà campo c’è lo stemma di questa finale. Gli odori ti portano indietro in un lampo. Fai per alzarti e c’è una nebbiolina intorno al campo, una spessa coltre di ricordi e sensazioni, t’avvii come un automa verso gli spogliatoio e cerchi gli occhi delle giocatrici. Sai che è lì dentro che troverai le parole per raccontare questa storia. In quelle finestre sul loro cuore, oltre lo spazio difeso dal loro casco, oltre la barriera del metallo vivo.
Furie.
Sull’altra linea, un mondo di distanza, lontano solo pochi metri. Sei dispiaciuto, tutto quello che sta per accadere sarà anche merito loro, non riesci ad ascoltare la loro voce, eppure vorresti tanto.
#22 “The Jet”. Lei è il playmaker, l’anima rosa di questa squadra in nero.
Ad uno scricciolo con i capelli arruffati, in bianco ed arancio con il #18 sulla maglia, indicano il #22 Nero, come un numero sulla roulette, a lei è toccato in sorte il compito più difficile. Allaccia il casco e si trasforma, come se dentro a quell’armatura trovasse il coraggio di far esplodere un potere speciale. Si lancia senza paura incontro ad un avversario, più veloce, più atletico. Lo colpisce, cade e scendono le lacrime, arriva lenta verso la linea, un colpo di spugna sui lividi, qualche parola che si posa in fondo al cuore e riparte, in piena velocità. Si lancia contro quel muro, ancora e ancora.
Le loro avversarie sono più numerose e sono più forti, la consapevolezza è un peso, il dovere di vincere spezza il cuore e l’animo.
Segnano al primo possesso le ragazze in bianco ed arancio, con la loro divisa nuova, orgogliose e fiere di essere qui, bruciano gli occhi, brucia il terreno, brucia la gola arsa.
La marea nera non ha pietà, colpisce la linea, ancora e ancora.
S’apre un varco, uno spiraglio. Gli scarpini mordono il terreno, la polvere collega con una linea impastata di sudore e lacrime quella palla e quel numero #22 nero.
La partita torna in equilibrio. Guardi i loro occhi, i loro corpi sono qui, il loro cuore è ancora nascosto sotto l’armatura, al riparo dalla paura di fallire, dal dolore di una sconfitta che tutti pronosticano.
Si voltano verso la linea e ci sono solo due sorelle li, che darebbero il loro braccio destro per scendere in campo.
Sono sole, ma qui, su questo terreno, sette contro sette, pari.
“Hut…Hut”, le linee collidono, il rumore dei caschi che impattano contro le protezioni. Ognuno si scontra contro un avversario, sole contro i propri demoni che oggi indossano un casco bianco e una divisa nera.
“Thumpf”, il suono di un enorme contenitore di plastica pieno d’acqua fracassato da un colpo micidiale e terribile.
#66. Non devi nemmeno voltarti a guardare, qualcuno ha pagato per quell’aria condizionata che non funzionava, per quel viaggio assurdo. Quel suono, quell’impatto, dà inizio alla partita, quella vera.
Rispondono colpo su colpo le Lobsters.
S’avvicina l’intervallo, possesso delle Furie. Arretra nella tasca e cerca oltre la linea e lascia andare la palla, la guardi rotolare in aria come una busta d’acqua lanciata per gioco. Arretrano insieme #52 nero e #27 bianco. Varcano la endzone, la palla nelle mani della #52 e i punti sul tabellino. I suoi demoni l’hanno trovata e schiacciata al suolo, ancora una volta. Nel tuo cuore speri, per l’ultima volta.
Time Out.
Grida dagli uomini in arancio, le cartelline volano, la tensione rompe gli argini ed esplode li, a due passi da te, a due passi da loro. Non hai mai detto una parola, sei li per raccontare una storia, la loro storia, ma le parole ti sfuggono di bocca quando incroci lo sguardo del #25.
“Guarda il campo, gli occhi alla partita”.
Ti sposti, lontano.
S’apre ancora una crepa, quel muro di fiducia, quel legame, s’incrina almeno un po’. Volano troppe parole, troppa energia si disperde in uno sciocco balletto proprio quando l’incontro è in bilico, nel momento più importante della loro giovane storia. C’è ancora una finale da giocare.
Quando arriva l’intervallo, il punteggio le trova in svantaggio, un possesso. Ancora in partita.
#47 è lei l’anima forte di questa squadra, lei è le lacrime che si fermano sul bordo dei suoi occhi e non scendono. Lei è il magone che ti stringe lo stomaco, è lo sguardo che sbircia lontano.
Acqua sul viso, parole sul viso e gli occhi piantati qualche metro più in là.
Tornate il campo e vedete quel #22 sventolare via, come se fosse fatta di vento e polvere. Scava un solco, nel punteggio, nel campo e nel vostro cuore.
Attraversi la linea, cerchi di fermare ogni istante, le ringrazi, lasci uno sguardo ad ogni passo. Sfiori i caschi e guardi i segni delle battaglia. Arretrare non è più possibile, non c’è un posto dove nascondersi, sotto questo sole, occhi negli occhi.
Si asciuga le lacrime e blocca il casco, si pulisce le mani sul quel numero #18, si schiera nel backfield e regala una speranza, corre veloce, corre libera, corre leggera, senza paura. Regala una chances, una occasione per tornare in partita, per vincere. Ti fa male ascoltare che non importa la prestazione se non si vince, che non importa avere quella voce dentro che ti fa gettare il cuore oltre ostacolo, ti vien voglia di andare via e lasciare che la storia si concluda qui.
Non oggi, non su questa linea laterale, non in questa metà di questo piccolo mondo speciale.
T’inginocchi e ti dimentichi della partita, come se qualcuno avesse gettato dell’inchiostro sui tuoi pensieri che diventano parole. Respiri e torni a guardarle e c’è quel sudore e quelle lacrime che impasticciano il trucco.
Sulla linea laterale il coach raccoglie la sua cartellina, guarda quel disegno, tracciato per regalare alle sue ragazze un sogno, le raccoglie intorno a se e gli indica la via. Una giocata alla volta, un down alla volta, tutti insieme, per quello che rimane di questa stagione.
Questo è allenare una squadra, darle la possibilità di vincere, di riuscire nel suo sogno. Permettere loro di diventare migliori di quello che possono immaginare di essere.
La difesa si raccoglie intorno al suo allenatore e si zittisce. “Andatele a cercare, entrate e andate a prenderle e tu…” indica quel numero #18 sporco di sudore ed erba… “la deve seguire ovunque…ovunque vada il #22 vai tu”.
Si schiera con la difesa e saltella ovunque, cercando di trovarla, guarda attraverso la linea avversaria e saltella, corre come una scheggia impazzita quando s’accorge di essere dall’altra parte del campo. S’avvinghia e tiene stretta la presa, non molla un centimetro e quando il ginocchio del “Jet” si gira dalla parte sbagliata, le ragazze s’inginocchiano per rispetto all’avversario a terra. Dentro di te, inizi a crederci, forse è possibile. Senza il suo playmaker, quel nero inizia a sbiadirsi e a confondersi con il bianco
Tempo.
Cinquanta secondi.
Senti la chiamata, sai qual è lo schema. Le ragazze l’hanno ripetuto così spesso che l’hai imparato anche tu quel playbook. Tocca a lei.
#27. Corre verso la linea, lontana dai suoi demoni. La ghermiscono e la sfiorano e quando t’accorgi che non c’è nessuno tra di lei e l’endzone avversaria ti chiedi perché non riesca a correre più veloce. Guardi il suo numero seminare le maglie nere, seminare i suoi demoni e diventare più leggera e più veloce. Quando varca la linea, la donna che dovrebbe essere e la donna che è s’incontrano. Esplosione di luce.
Il suo sorriso, le braccia large ad abbracciare le compagne, quel balletto. Sembra non tocchi terra. E’ sulla linea laterale ora, la guardi attraverso il metallo del casco. Non scorgi quelle venature che spengono la luce dei suoi occhi. Sorrisi e Luce.  Quella canzoncina, finalmente dalla testa alle labbra, quel pizzico speciale di felicità che ti batte nella testa e non fa mai male.
È possibile. Adesso.
Se la signora delle statistiche non te l’avesse detto, non c’avresti creduto. 19-19, quattordici secondi.
Overtime.
#25. C’è ancora lei sulla linea laterale, lo sguardo agli schemi, poi alle sue compagne. Volti la testa per un istante, c’è qualcosa in quegli occhi. Ti fermi e la guardi, è voltata alla partita, chiusa nella sua armatura. Sorridono i tuoi pensieri quando riesci a collegare quello sguardo alle sue poche parole, ai suoi gesti, al suo gioco. Vuole essere migliore, scalare quell’ultimo gradino, prendersi la responsabilità, esserci per le sue compagne, condurle dove sa che possono arrivare. Senti battere il suo cuore, l’incessante martellare di passione conta più del talento, il talento può portarti fino ad un passo dalla vittoria, ma è quel battito potente che ti fa varcare la endzone. Vorresti che tutti potessero sentire la sua vocina dentro il cuore che le ripete che può farcela, che può andare oltre, “continua, nessuno può fermarti…ancora una giocata, puoi farlo, ora…”
Fischio.
#22 Nero. La linea offensiva in nero si schiera, quelle parole: “Fai la giocata”, nella mente che rimbalzano. Il suo corpo è allo stremo ma lei ci prova. Con una gamba sola salta la linea difensiva bianca ed arancio e al quarto tentativo regala alle sue compagne un pezzetto di quel sogno che cullano da sempre.
Fischio.
Si preparano per affrontare la furia nera ancora una volta, un punto. Un punto che non arriva, s’aggrappano al terreno, si scagliano contro le avversarie attraverso quel muro di maglie e le fermano a due passi da quel sogno comune.
Senza più i suoi demoni negli occhi e nel cuore, il #27 danza attraverso la linea e realizza. Un punto, quello che loro hanno fallito le separa dal titolo. Un’unica giocata per vincere il titolo.
Rumore, grida e il tempo si dilata, il suono ovattato come se arrivasse da lontano.
Per sempre, qualche secondo ancora è quello che accadrà sarà per sempre.
Corre verso il tuo angolo. Click.Click.Click. Gli scatti che materializzano un sogno. Quel #47 che diventa sempre più grande e ti sorride il cuore, si spalancano gli occhi e senti un brivido di freddo anche se ci sono quaranta gradi. Sai che non c’è nessuno davanti a lei, la guardi attraversare la linea e non ricordi di averla vista calpestare l’erba. Per te rimarrà sempre sospesa a mezz’aria in quell’attimo in cui varca la linea mentre guarda verso le avversarie.
Il tempo accelera all’improvviso. Grida, pugni al cielo. Lacrime e gioia, abbracci e baci. Sorrisi in ogni angolo di questa linea.
Guardi la #66 ballare in mezzo al campo, leggera come se non avesse peso, ruota su se stessa e pensi a Georgie il cartone animato alla bimba bionda che corre felice nei prati. Non riconosci i visi, cerchi gli occhi, quelli sono sempre gli stessi, un po’ più luminosi ora.
Ti sposti e raggiungi la linea nera, in ginocchio. Il trucco impastato dalle lacrime, tutto il tempo che rimane e quello passato che non puoi recuperare che non può tornare. Brucia nel cuore. Brucia nei muscoli e brucia negli occhi. Osservi il #22 Nero senza casco e trovi la donna dietro l’atleta. La vedi sorridere, quei sorrisi che si stampano sul viso di chi ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, di chi sa di aver lasciato tutto sul campo. Rispetti la donna e l’atleta e tutto quello che c’è nel mezzo. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il loro cuore e le loro ossa. Il loro sangue è rosso, le loro lacrime salate. Nessuna vittoria merita di essere festeggiata se non si sconfigge un grande avversario.
Su questo fazzoletto verde a strisce bianche, sorrisi e lacrime, sono solo a qualche metro di distanza. Il football è come la vita, solo accade più in fretta.
I trofei alzati al cielo sembrano più lucenti, le medaglie al collo. Sono scene tutte uguali a se stesse, negli occhi di chi partecipa assumono un colore diverso, un sapore particolare.
Federica riceve la sua ed hai l’impressione che non voglia trovarsi li, che cerchi di farsi più piccola di quello che è, sembra dica: “ma io non c’entro nulla”. Rispetti il suo desiderio di competere, di guadagnarsi un successo sul campo. Hai visto i suoi occhi bruciare durante l’incontro, il corpo piegarsi come ad evitare i colpi e poi persi dietro ad ogni traiettoria, ad ogni parabola.
Lasciate Ferrara e dallo stadio s’alza “We are the Champion”, ascolti qualche verso e guardi Federica, “Non è la Champions League, ma l’avresti detto?”.
Si torna a casa.
Grazie a loro hai potuto raccontare una storia speciale, una di quelle che di solito leggi sui libri, ora devi ringraziarle con la tua voce.

È qualcosa in più.
L’aria della sera umida in viso, davanti al campo vuoto, le luci gialle attraversano il campo.
Caldo.
Nessuno s’allena oggi su questo campo.
Arrivi salendo le scale, con in testa i suoi  silenzi rumorosi, come un tuono d’estate.
Le hai chiesto di raccontarti cosa accadeva qui quando non c’erano le campionesse d’Italia, dove c’erano solo poche ragazze, perché le importa così tanto.
La vedi seduta su quella panchina di legno, con lo sguardo rivolto al campo e un peso sul cuore. Sola, in poche a crederci davvero. Costruire una squadra è un atto di consapevole dolore, per il corpo e per il cuore.
Non c’è il coach qui. Siete, sole. Con il vostro sogno.
T’aggiusti la protezione che tiene un ginocchio che non ne vuol sapere di sopportare le collisioni al quale lo sottoponi. Solo forza di volontà. Quella determinazione che puoi nascondere anche nei tacchi a spillo ma ti brilla negli occhi e si riflette in quelli di tuo padre. Fiero nella tua maglia, con gli amici, fiero come non lo ricordavi e impresso sul cuore. Non l’ha visto, perché condividete il pudore per quello che pensiate sia solo vostro e invece finisce per essere un sentimento che scalda il cuore di tanti.
C’è la porta di quello spogliatoio, in quello spazio solo vostro avete litigato e avete discusso e ne siete uscite più forti. Tra quelle mura avete siglato un accordo tacito per portare a termine quello che avevate iniziato.
Ora capisci il perché di quella rabbia tra le dita, perché quella squadra l’avete tatuata sulla pelle, perché per voi quella maglia è rossa, come il vostro sangue.
Quell’accento argentino in sottofondo, il sudore e la competizione.
Ami questo sport più di quello che credi, perché lo praticheresti ovunque, perché sei maledettamente brava, anche se nessuno ti ha insegnato nulla e perché ti è stato dato in dono e vuoi farne buon uso.
Sorridi quando ti parla della sua passione, è totale, assoluta.
Molto diversa da quella di certi atleti che con fisici da giocatori di biliardino che pensano che “tirare” la palla sia la stessa cosa che “lanciare” la palla. Perché non basta correre veloce per essere un giocatore importante. Lei corre con la squadra e per la squadra. Hai un’immagine per sempre stampata nei ricordi, lei che attraversa la linea dell’endzone per segnare quel punto che vale un campionato.
Ti ricordi solo la maschera e gli occhi dentro. Sembravano profondissimi, il suo corpo veniva verso te, in corsa, ma i suoi occhi rimanevano lontani. Non accadeva, loro rallentavano mentre le gambe avanzavano, come se tutto fosse più grande di lei, troppo per i suoi silenzi e il suo pudore.
Hai avuto in regalo la possibilità di conoscere le due donne, quella che indossa casco e maglia numero 47 e quella con i tacchi e la sua presenza femminile. Di tutte le meraviglie di questa stagione, questa merita un posto d’onore perché quando le luci si spegneranno e le medaglie avranno preso polvere, i suoi occhi continueranno a brillare. Quando il tempo avrà fatto invecchiare i suoi protagonisti, nei tuoi ricordi e nei tuoi racconti loro saranno sempre giovani, meravigliosamente.

“Eccomi, insomma parlo poco e scrivo forse troppo, queste sono parole che non rileggerò e non subiranno correzioni. Fuori dal cuore, direttamente. Grazie e dai cazzo. Bastava così…a Bologna ero già contento. Avevo paura che non riuscissi a vedere una storia a lieto fine e di non essere capace di raccontarla. Grazie per i ricordi, per il tempo, per i vostri occhi, per avermi fatto tornare adolescente almeno per qualche istante. Grazie per il viaggio insieme e per la maglia piena d’abbracci, lacrime e sorrisi. Grazie perché niente sarà mai uguale a tutto questo, perché non lo dimenticherò mai. Grazie anche se scendo da questo treno perché so che proseguirà da solo, comunque. Grazie per quel balletto in endzone, grazie per quello al centro del campo, grazie per lo scudetto “grandegrande”, grazie per LT (puoi farti spiegare la sigla da Antonio) che è anche una bella donna e indossa il numero 47 e queste cose le ho scoperte li con voi, grazie per gli orecchini in tasca, per avermi lasciato sbirciare nella vostra famiglia. Grazie per le cartelline che volano perché te ne frega. Grazie per attraversare il campo scalzo perché il campo ti entra da terra. Grazie per le parole su FB anche se faccio sempre  fatica a comprendere che non sono un insulto. Grazie per quei pezzetti di voi che avete seminato senza volere nella mia vita, che avete lasciato sulla linea laterale perché potessi raccoglierli. Grazie per i vostri nomi sul mio pallone. Grazie per il sogno diventato realtà. Sentitevi libere di regalarmi una maglia da gioco. Un abbraccio forte a tutte voi Girls of Fall.”

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