C’è una calma apparente prima dell’inizio di una partita di football.
Controlli il casco, t’aggiusti la polsiera con gli schermi. Infili l’asciugamano corto, ben dentro i pantaloni, segui le tue compagne fuori, sul campo.
Rimani in silenzio.
Lasci che le parole rimbalzino sul casco. Vuoi iniziare, perché tutto finisca in fretta, per metterti alla prova.
Entri in gioco, con l’attacco. Guidi la tua squadra fuori per la prima volta, forse non la senti nemmeno davvero tua, forse non ti senti all’altezza. La paura inizia a salire lungo le dita, il sorriso scompare e ti sembra di restare sola, davanti a te ora un muro di maglie colorate diverse dalla tua.
Stai per scoprire com’è questo gioco, stai per scoprire cosa vuol dire essere un quarterback.
One Mississippi.
Snap, la palla nelle tue mani.
Cerchi di sistemarla.
Respiri ma l’aria sembra non entrare nei polmoni, intorno a te il tonfo soffocato dei caschi contro le armature, lo spazio inizia a stringerti e ti senti soffocare.
Two Mississippi.
Cerchi una compagna libera, per lanciarle la palla.
Le avversarie tutt’intorno a te.
Tutto si muove troppo in fretta.
Cerchi una via d’uscita.
Colpo.
Buio.
Il sapore dell’erba sul viso.
Ti rialzi, torni verso le tue compagne in huddle, guardi la polsiera, prendi fiato. Cerchi di spingere l’aria giù nei polmoni e speri, preghi, che serva a rallentare il cuore. Va a mille e sembra stia per esplodere.
Cerchi lo schema, la chiamata.
T’avvii con passo lento verso la linea d’attacco, ti pieghi e ti prepari a far partire l’azione.
Hai già vinto e nemmeno lo sai.
Possiedi qualcosa che non s’insegna. La voglia di vincere, di tentare e ritentare, di perseverare nelle difficoltà. Le abilità atletiche e sportive si educano, quello che hai nel cuore… se è li, bene… altrimenti non si può comprare.
Ricordi la prima volta che sei entrata in piscina? Quando hai imparato a nuotare? Avrai annaspato prima, provando e riprovando ad imitare quelli che già si muovevano in acqua, con disinvoltura.
Non ti sei tirata indietro, non hai scaraventato il casco in terra, non hai cercato scuse.
Sei tornata sulla linea, con gli occhi puntati addosso. Hai incassato i tuoi colpi e ti sei rialzata.
C’era tutto, lì, nei tuoi occhi. Avresti dovuto portare quella disperazione fuori da li e dentro il campo. Metterlo nella partita, in ogni secondo che sei rimasta su terreno di gioco.
Avevo già deciso di scriverlo questo pezzo, quando ho visto comparire Karen e lasciare ad una tua foto un semplice messaggio: “Bella la nostra qb!!!!!”.
Forse vedo cose che non esistono, un po’ come quelli che ti raccontano di uno specchio magico e di un bianconiglio.
Ma quelle poche parole valgono una carezza al tuo cuore, trasformano le compagne di squadra in sorelle, giocatrici in guerriere. C’è un’argentina durissima con le sue compagne di squadra ma ancora più dura con se stessa. A loro devi guardare, alla loro mano tesa, ai loro occhi.
A quella voglia di essere le migliori, a quell’insopportabile idea di fare pena sul campo.
L’intercetto, i passaggi a vuoto, i movimenti lenti, il tuo sembrare persa.
Quello è l’ovvio, sotto gli occhi di tutti e non è li che devi rivolgere lo sguardo.
Non credere ora alle coincidenze è davvero difficile, mentre ti scrivo mi capita di leggere proprio questa frase: “Chi dice che è impossibile non dovrebbe dare fastidio a chi ce la sta facendo”.
Prendi la rabbia e la frustrazione che hai spinto giù nello stomaco e portala in campo, ad ogni allenamento, ad ogni lancio, in ogni singolo movimento.
Sei già migliore di quella che è scesa oggi in campo, per accorgetene devi solo guardare nella direzione giusta.
Three Mississippi.
Sistemi il casco, i dreadlocks di cui sei tanto orgogliosa spuntano appena un po’. Cerchi un posizione comoda, provi e riprovi a spostare anche la mentoniera.
Entri, prendi il tuo posto in mezzo alla difesa.
L’azione parte.
Ti muovi, cerchi il pallone, l’avversario da colpire.
In caccia.
Come se fossi sempre stata li, come se per te questi movimenti fossero l’atteggiamento più naturale al mondo.
Lei è il classico giocatore che fa cacciare gli allenatori, uno di quelli che non noti in allenamento, di quelli che quando la partita inizia si trasforma, in un atleta diverso.
Dev’essere la magica mistura di agonismo e competizione, con il terreno di gioco e gli avversari a fare da catalizzatore, a generare questo mutamento.
Ti chiedi dov’è stata, com’è possibile non averla notata e guardi incredulo il campo, almeno per un po’.
Riesce a distrarti dal seguire con attenzione l’atleta più sottovalutato dell’intera lega di football femminile.
Angelica, “The Game Changer”.
Tutti ricordano i touchdown, le corse e i passaggi.
Tu ricordi il placcaggio che ha cambiato il corso del primo Rosebowl.
C’è questa luce particolare che gli brilla negli occhi quando parla di football, dei suoi sogni, che si finiscono sempre con l’includere il football. “Mi piacerebbe provarlo in America…” ti ha raccontato in un breve viaggio in macchina, verso un amichevole. Lì hai appreso che divora filmati sul football, in quantità industriale e quando ieri, Coach Stanzani l’ha spostata Defensive End, lei ha portato scompiglio e placcaggi nel backfield avversario. All’ennesima incursione vincente, ti è tornato alla mente un numero 75 bianco e una maglia nera. Los Angeles Raiders, hai pensato ad alta voce: “Howie Long”.
Non hai paura eppure quando il gioco s’interrompe e c’è il fischio dell’arbitro, torni la ragazzina normale, quasi comune, se non fosse per il non trascurabile dettagli che indossi ancora casco e paraspalle.
Parli poco, inconsapevolmente lasci che sia il campo a farlo per te.
Non si può non amare quel furore agonistico, quell’ardente desiderio di riuscire al meglio, proprio vero anche per un atleta: “l’essenziale e invisibile agli occhi”.
Four Mississippi.
Il fischio finale è come un interruttore. Scollega il tuo corpo dalla mente e dal cuore. Rallenta il tempo fino a sembrarti normale, arrivano i dolori dei colpi, la percezione del mondo torna completa. Ti togli il casco e il tuo vecchio mondo è ancora li.
Raggiungi gli spogliatoi, dai un colpo alla borsa e a fatica ti pieghi per liberarti delle scarpe da gioco. Fa troppo male, te ne liberi con un calcio. Stai qualche minuto li, con la testa bassa a trafficare con l’armatura.
TI trascini sotto la doccia, pianti le braccia contro il muro e lasci che l’acqua si porti via tutto. Guardi la fatica, la delusione e lo sporco finire nello scarico.
Tu eri li fuori e non hai mollato ed è questo che ti devi stampare nel cuore.
Non importa se tutto questo non è mai successo, se nessuno l’ha visto tranne me. È il privilegio che si matura quando si tengono i sogni stretti vicino al cuore. Forse tu, si tu con il numero 29, non ti sbagli quando mi ripeti ossessivamente che non ho bisogno degli occhi per raccontare una storia. Non scrivo per te che leggi, lo faccio per me. In qualche strano modo voi tutte, mi avete fatto un regalo, senza prezzo.
Ho chiesto a Babbo Natale due cornee per sostituire quelle che non funzionano più, ieri per un ora avete urlato da quel campo che non ne ho bisogno, ho il cuore per vedere.
